La colata piroclastica inarrestabile

16 GIU - Gentile Direttore,

le comunità sono “sistemi complessi che manifestano proprietà emergenti” e come tali dovrebbero essere considerate. L’anonimato e la frenesia del vivere quotidiano hanno però indebolito la trama che legava quelle realtà complesse. Alcuni storici valori (le relazioni, le identità, il mutuo sostegno…) possono, forse, ancora essere ritrovati solo nei piccoli centri o nei quartieri/rioni.

La così detta “pro-attività “delle comunità è svilita da una forte istituzionalizzazione se non da una ossessiva attività amministrativa che disancora ancor di più le componenti territoriali dagli organismi ufficiali. Numerosi sono gli esempi di formazioni culturali o di volontariato studiate a tavolino nei corridoi che contano mascherate poi da iniziative originate dalla collettività da utilizzare come produttori di opinione pubblica (opinion makers o influencer). Anche in questo campo è molto difficile riuscire a liberarsi dell’economicismo e dal business.

Sorprende ancora di più come alcuni distretti si siano ossessivamente impegnati, nella loro pur legittima funzione politica-amministrativa, a distruggere negli anni ogni forma innovativa di partecipazione faticosamente realizzata da professionisti e cittadini.

Sono recenti le nuove trovate (furbacchione) di accorpamento funzionale di AFT al fine di poter dichiarare di avere una Casa della Comunità hub per ogni AFT (riducendone di fatto il numero da attivare). Gli accorpamenti diventano ambiti eccessivi, funzionali all’amministrazione ma antitetici alle comunità.
Si realizza così una situazione molto particolare dove diventa obbligatorio, per i mmg singoli o di CdC spoke, “interfacciarsi”, “rimodularsi”, “partecipare alle turnazioni”.

Si prefigurano ipotesi di Case della Comunità inserite addirittura all’interno degli ospedali dove le recenti ristrutturazioni nosocomiali hanno liberato numerosi “padiglioni” che gli assessorati vorrebbero riutilizzare. Esempio plastico di assistenza territoriale di prossimità!

È verosimile che tutto questo disastro intellettuale/culturale derivi “ab origine” dall’errata interpretazione del concetto di “prossimità” suggerito dal documento “Nex generation UE” e tradotto in un pensiero uniformato, unico, tenace ed ostinato (Case della Comunità). Le CdC sono state accreditate di una aspettativa tale, rigida ed indiscutibile, da divenire foriera di facili profezie avverse auto avverantesi. Ma non sarebbe più comprensibile chiamarle Case della Salute delle comunità?

Dietro alla fascinazione di ciò che viene venduto come innovazione sanitaria-sociale si possono inoltre intravvedere logiche tipicamente tecnocratiche e di iper-istituzionalizzazione del concetto salute dove le elaborazioni , soprattutto di ausl e distretti, non risentono mai gli effetti di un effettivo confronto (indipendente) con ciò che già esiste nei territori: esperienze di bene-vivere o di bene-essere e di co-operazione tra operatori e cittadini in grado, nel tempo, di riparare il disastroso disegno progettuale territoriale in atto che sembra inarrestabile.

Per argomentare ulteriormente il tema si potrebbe dire che la letteratura di settore sembra bocciare completamente le attuali amministrazioni sanitarie regionali e locali anche sul piano prettamente culturale. Non solo il termine con cui vengono definite le così dette innovazioni territoriali (CdC) ma anche le idee architettoniche risultano completamente fuori tempo, contro ogni concetto di cura intesa come bene-esistere e di partecipazione delle comunità.

Sia sufficiente ricordare alcuni esempi di Case della Salute di comunità: CdS di Comunità di Ballarat, a Vittoria, in Australia; la CdS di Comunità a Gravesend nei pressi di Londra chiamato Waldron Health Centre; la CdS di comunità di Orense in Spagna; la CdS di comunità chiamato Kentish Town Health Center di Londra; la CdS di Matta Sur a Santiago nel Cile chiamato Centro Comunitario de Salud Familiar; la CdS di comunità di Vézalay in Francia; la CdS di comunità a Rauma in Norvegia chiamata Holistic Heatlhcare; la CdS di comunità di Gibraleon in Spagna; la CdS di comunità di tipo educativo ad Amburgo detta “Tor zur welf” cioè “porta sul mondo”…

È una policroma carrellata su idee e realizzazioni relative alle strutture sanitarie territoriali che hanno tutte la specifica caratteristica di essere molto belle. Anche moderne e funzionali ma soprattutto belle.

In questi edifici il personale che vi lavora e i pazienti ma anche i semplici cittadini di passaggio o che si trovano a prendere un caffè o a seguire una conferenza, si trovano molto bene e a loro agio. A volte guarire non è così importante come lo è in effetti l’essere perfettamente curati. L’ambiente, l’arte, il bello è già una cura (Film: Lo scafandro e la farfalla, miglior regia al Festival di Cannes, 2007).

Il paradosso è che “…del bel paese là dove 'l sì suona…” cioè nella patria del bello pare essersi proprio smarrita la consapevolezza di una sua caratteristica riconosciuta a livello universale anche a causa del tormento di un pensiero uniformato che non ha concesso nessuno spazio ad ideazioni armoniose ed attraenti. Basterebbe una realizzazione similare a quelle ricordate nell’elenco per rendere inutili norme cogenti o forzose (ad es.: per i mmg).

È come se un senso di mediocrità e di ricerca del massimo ribasso si sia impossessato anche delle menti e delle anime delle persone tanto che viene dato per scontato che le cose debbano andare così.

E la colata piroclastica è talmente potente nella sua progressione inerziale che nessuno (cittadini, associazioni, comunità, professionisti…) è in grado di modificare la sua evoluzione nefasta. Soprattutto si assiste ad una comunicazione completamente sbagliata ai cittadini cui si tende a far credere che gli asini volino pubblicizzando “un po’ di prestazioni, (s)vendute come meglio di niente,” distraendoli rispetto al loro diritto di presa in carico e di essere perfettamente curati (mdr da C.M. Maffei, Il DM77 è già in svendita…, QdS 13 giugno 2025).

Al fine, quando qualcuno finalmente riuscirà a tirare le somme di quanto capitato negli ultimi decenni al nostro sistema sanitario territoriale… a chi verranno attribuite le responsabilità?

Bruno Agnetti
Centro Studi Programmazione Sanitaria (CSPS) di Comunità Solidale Parma ODV

16 giugno 2025
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Frammentazione del pensiero

08 MAG - Gentile Direttore,
i recenti contributi di A. Giustini (… come navigare nel vuoto spaziale, QdS, 5 maggio 2025) e di G.Pizza (… rimuovere le contraddizioni del SSN, QdS, 6 maggio 2025) hanno aiutato a riflettere sulle criticità organizzative “superficiali” e sulla confusione esistente tra una idea di riforma (I. Cavicchi) e una tecnicità pareggiabile o comparabile detta problem solving.

In alcune regioni considerate “modello” si sono verificate nell’arco di 15 anni talmente tante revisioni organizzative-assistenziali da portare inevitabilmente ad uno stato di profondo disorientamento i professionisti e gli assistiti.

Nel 2010 vede la luce un primo documento regionale sull’organizzazioni delle Case della Salute che risente delle considerazioni in atto, in quel momento, tra Conferenza Stato-Regioni (commissione sanità), Agenzie e Ministero.

Nel 2012 infatti, anche per quanto in discussione in ambito della Conferenza Stato-Regione, viene emanato il Decreto Balduzzi che formalizza i concetti di UCCP (Unità Complesse di Cure Primarie individuate per un ambito di circa 30.000 assistiti) e di AFT (Aggregazioni Funzionali Territoriali). Ogni regione poi darà interpretazioni proprie a questo decreto modificando il significato di UCCP in Case della Salute e di AFT in NCP (Nuclei di Cure Primarie).

Nel 2013 Deliberazioni Assembleari Regionali inseriscono la possibilità di considerare nelle UCCP o Case della Salute anche “letti territoriali “da cui poi si svilupperà l’idea degli Ospedali di Comunità.

Nel 2015 documenti inerenti le linee di indirizzo per l’assetto organizzativo delle Case della Salute regolarizzano la partecipazione delle comunità e delle associazioni dei cittadini alla vita della Case della salute (nulla a che vedere con un vero coinvolgimento ai vari livelli dei processi decisionali di professionisti e assistiti).

Nel 2016 vengono diffuse le indicazioni regionali per il coordinamento professionale all’interno delle Case della Salute con una suddivisione “a silos” delle aree professionali come se fossero reparti nosocomiali (vera e propria controriforma).

Nel 2017 partono alcuni programmi regionali formativi che vorrebbero promuovere l’integrazione multiprofessionale nelle case della salute ma che rinforzano le posizioni gerarchiche.

Nel 2018 gli Assessorati Regionali della Sanità di alcune regioni “esempio” ribadiscono che la popolazione di riferimento per una casa della salute grande deve contare circa 30.000 assistiti.

Nel 2020 il Next generation EU evidenzia come sia urgente la necessità di addivenire ad un rinnovamento dei sistemi sanitari nazionali indicando l’obiettivo della “prossimità” come intento principale.

Nel 2021 si approva il PNRR che, per quanto riguarda la sanità, nella missione 6, interpreta il concetto di “prossimità” uniformandosi, senza flessibilità, alla tesi, improvvisamente di moda, delle “Case della Comunità” cancellando con un colpo di spugna tutta l’elaborazione intellettuale e culturale sulle Case della Salute valutate negli anni precedenti da professionisti, intellettuali, comunità e società civile. Per inciso non sarà superfluo ricordare che tra servizi raccomandati, facoltativi ed obbligatori nessuna Casa della Comunità (hub o spoke) può superare il modello Casa della Salute detta “grande”.

Nel 2022 il DM 77 definisce un modello di assistenza sanitaria territoriale confermando il pensiero unico (Case della Comunità, Ospedali di Comunità, COT) e dimostrando di fatto l’incapacità di trovare una vera idea innovativa e riformatrice. A suo tempo non era stato possibile rifornire tutte le AFT di una Casa della Salute e così, oggi, non vi saranno Case della Comunità per tutti i territori e, di nuovo, si creeranno discriminazioni assistenziali e professionali.

Nel 2025 alcune voci, che originano dai corridoi dei palazzi che contano, sembrano annunciare iniziative di accorpamento tra AFT al fine di costituire nuovi ambiti territoriali più ampi dove vi sia, almeno, una Casa della Salute o una Casa della Comunità al fine di attuare le indicazioni del DM77. Tuttavia in questo modo si alterano le norme inerenti il numero di assistiti massimo per AFT e dei relativi professionisti. Paradossalmente questi eventi, considerati trascurabili tecnicismi per le alte dirigenze, confermerebbero la “legge” tipica dei sistemi complessi nei quali, anche variazioni iniziali minime possono però provocare risultati finali completamene inattesi, irrimediabili, catastrofici. Degno di nota, a riconferma di assenza di “pensieri pensati”, è il fatto che, nelle regioni considerate “modello”, proprio in quest’anno 2025, siano riapparsi e menzionati concetti come AFT e UCCP che si rifanno al decreto Balduzzi del 2012.

In tema di “accorpamenti” la ricerca di M. Mariani, A. Acampora e G. Damiani, pur datata (2017), aiuta a considerare come, partendo da alcune evidenze, i benefici attesi dagli accorpamenti sanitari, di vario tipo, sono stati disattesi generando ulteriore distanza tra le autocrazie regionali e professionisti/cittadini/assistiti. Le motivazioni che muovono le “fusioni” sarebbero di tipo economico e politico mentre l’aspetto assistenziale resta relegato nell’ombra. Non emergono risultati statisticamente significativi sull’efficacia clinica, preventiva, assistenziale, sull’accessibilità e sul coinvolgimento dei professionisti. C’è la percezione di un peggioramento nell’erogazione dei servizi. Non vi sarebbero quindi automatismi tra aumento delle dimensioni dei bacini di utenza ( es.: AFT o Aziende Uniche) e il miglioramento delle performance sanitarie.

Come volevasi dimostrare la macchina del così detto controriformismo e del neoliberalismo aziendale continua la sua folle corsa sostenuta da una selva di normative emanate dalla piramide gerarchica (accordi, intese, delibere, circolari, patti, norme transitorie, deroghe, interpretazioni, contraddizioni, sovrapposizioni normative…). Non c’è il minimo spazio per autocritiche, ripensamenti, confronti. Non ci sono speranze a breve. Forse saranno le nuove generazioni (Livia avrà un diritto pieno?, QdS, 24 aprile 2025) che troveranno modalità sostanziali (modifiche costituzionali?) al fine di sostituire califfati e mandarinati con comitati di salute pubblica, collegi territoriali, comunità, AFT e competenze computazionali autonome. Nel frattempo però il vassoio d’argento sembra già preparato per offrire una favorevole entrata in campo delle aziende private nei servizi sanitari territoriali e, in particolare, nella medicina generale di base.

Bruno Agnetti
Centro Studi Programmazione Sanitaria (CSPS) di Comunità Solidale Parma ODV

08 maggio 2025
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Davvero con le Case e gli Ospedali di Comunità per realizzare una sanità di prossimità?

18 MAR - Gentile Direttore,
il termine “comunità” rischia di diventare un oggetto inflazionato, démodé, di pronto consumo, un slogan automatico e spesso autoreferenziale appiccicato a qualunque cosa (case, ospedali, quartieri, situazioni…).

È noto che il Documento Next Generation UE ha raccomandato un riordino (a causa dell’esperienza covid) delle cure primarie territoriali orientandole al massimo della prossimità. Questa indicazione generale della UE è stata (da chi?) forzatamente incanalata in una direzione rigida, statica, protocollare, normata dalle agenzie (sistema delle Case della Comunità & degli Ospedali di Comunità & delle COT, ecc.) orientate ad azioni in conto capitale (una tantum). Attualmente la parte della gestione (conto) corrente secondo quanto riportato da Maragò e Rodriquez (QS del 13 marzo 2025) per le CdC è del 3%!

Eppure vi sarebbe stata a disposizione una corposa letteratura che indica possibili altre direzioni da percorrere probabilmente più aderenti ad una visione contemporanea della prossimità dove la teoria dei sistemi complessi viene opportunamente integrata con il paradigma bio-psico-sociale. Alcune strategie avrebbero potuto dimostrare molta più efficacia ed efficienza nell’assistenza territoriale di vicinanza e meno impegno dal punto di vista economico: ci si riferisce ad una revisione operativa delle Aggregazioni Funzionali Territoriali (AFT della Riforma Balduzzi 2012) dette anche dei Nuclei di Cure Primarie (NCP). Il prestito PNRR deve essere comunque restituito in quanto pur avendo ricevuto 68,9 miliardi a fondo perduto, 122,6 miliari dovranno essere rimborsati entro il 2058.

Il sistema Case della Comunità (poche spoke e pochissime hub), Ospedali di Comunità (rarefatti), le COT (l’estrosa infografica prodotta dell’agenzia difetta un po’ in comprensibilità) mostrano tutt’ora affanno, tuttavia la recente notizia del possibile commissariamento dell’Agenas non inficerà certamente il lavoro svolto dalla sua istituzionalizzazione ad oggi (QS L. Fassari, 14 marzo 2025). Con le numerose situazioni di commissariamento all’interno del servizio sanitario nazionale si potrebbe pensare anche di fare un campionato di eccellenza in aggiunta a quello esistente.

Nel frattempo sbucano, qua e là, informative su possibili accorpamenti delle AFT.

Non si tratta solo di dare forma a “superaziende” uniche (Ospedaliere-Universitarie-Territoriali) ma di operare anche su scale inferiori riducendo ambiti che in teoria avrebbero dovuto risentire positivamente, dopo tanto tempo, delle indicazioni del PNRR e di una sanità più equa. Accorpando un certo numero di AFT o NCP se ne riduce di fatto il loro numero totale, in opposizione a quanto sostenuto dalla stagionata Legge Balduzzi (non abrogata). La nuova ingegnerizzazione territoriale permette di offrire quindi a queste AFT accorpate una CdC Hub, forse anche un Ospedale di Comunità, potrebbe scapparci anche una COT ecc. Sembra una operazione opposta a quella definita economia di scala. Sarebbe una “distribuzione concentrata” che ancora una volta va a scapito dell’eticità e della capillarità. Oppure può sembrare una “esclusività forzata”: quando le risorse destinate ad un territorio vengono distribuite su due settori si creano vantaggi di prossimità ad alcuni e svantaggi professionali e assistenziali ai molti che hanno subito l’accorpamento. Il riordino del PNRR potrebbe tendere ad incrementare quindi le discriminazioni quando in teoria dovrebbe ridurle. Il vento controriformista è riuscito a trovare un nuovo ambito di influenza.

La tormentata opera di riordino delle cure primarie, così impegnata nella sua govenamentalità, è incline a dimenticare la tradizione culturale della professione medica, la sua deontologia, i principi operativi distintivi sintetizzati dall’albero Wonca. Tralascia, in particolare, il fatto che la medicina generale territoriale ha contribuito a costruire nel tempo, in osservanza ai determinanti di salute, reali piccole “comunità solidali”. Le aggregazioni comunitarie solidali non possono essere paragonate al sistema delle Case della Comunità o agli Ospedali di Comunità che, per il momento, possono vantare solo nomi evocativi.

Non sarà certo sfuggito ai più che numerosi servizi ipotizzati nelle Case della Comunità, Hub e Spoke, sono classificati come non obbligatori, facoltativi o raccomandati a fronte di una ostentata completa prossimità. Se lo standard per una CdC hub è di 50.000 abitanti di che prossimità si parla? E quando si prevede un Ospedale di Comunità ogni 100.000 assistiti perché ci si ostina a definirlo di comunità? Le comunità solidali sono invece preesistenti ad ogni sovrastruttura e hanno soprattutto caratteristiche di tipo etico e solidaristico. Queste comunità che, come riporta anche la Legge Balduzzi, non dovrebbero superare mai le 30.000 persone, non entrano mai in concorrenza sulla salute e cercheranno un benessere intelligente e percorribile che non crei disgregazione di tradizioni e costumi (patrimonio di emancipazione).

La sanità territoriale autonoma può moderare le conflittualità temperando i vari particolarismi egoistici compresi quelli aziendali. Secondo Hegel l’idea di solidarietà passa attraverso il riconoscimento reciproco e l’integrazione all’interno di un sistema valoriale che, pur se rappresentato da comunità piccole, viene accettato e rispettato anche dalle istituzioni.

Bruno Agnetti
Centro Studi Programmazione Sanitaria (CSPS) di Comunità Solidale Parma ODV

QdS 18 marzo 2025


Medicina Territoriale

Case della Comunità periferiche verso l’emarginazione

26 LUG - Gentile Direttore,
Il prof. Ivan Cavicchi, novello e orgoglioso nonno di Livia, fa fiorire nel profondo del suo animo, provato da numerosi dispiaceri culturali e lacerazioni identitarie, un autentico significato di speranza. Con il suo ultimo articolo QS 22 luglio, la recente pubblicazione "Salviamo la sanità. Una riforma necessaria per garantire il diritto di tutti" (Castelvecchi 2024), che si legge tutta d’un fiato e le appassionate conversazioni/conferenze presentate in molte località del paese, il Prof. Ivan non solo prospetta un “appello alla ragione” ed una strategia bipartisan per salvare la sanità ma evidenzia come, per ottenere un reale “processo” di modifica dell’ordine omologato dominante, diventino fondamentali i movimenti dei cittadini o dei volontari affrancati da ogni forma di conflitto di interessi.

Nulla che possa essere ricondotto alle Conferenze Socio-Sanitarie Territoriali, alla Conferenza Stato Regione oppure ai Comitati Territoriali Misti dove le frequentazioni istituzionali o le appartenenze di apparato condizionano di molto i metodi e i meriti delle questioni a causa di una “governamentalità diffusa”.

I cittadini hanno l’esigenza di comprendere il perché le nostre società, le periferie, le rappresentatività formali sono diventate ciò che sono. Lo sbilanciamento informativo è evidente. Le persone, quando aggiornate correttamente, sono colpite dalle vicende che hanno coinvolto il Sistema Sanitario in questi 40 anni e vorrebbero partecipare a contraddittori pubblici perché hanno a cuore il problema della sanità/salute. Desiderano uscire dai recinti precostituiti e monocordi avvezzi a conservare sotto vuoto le notizie “strategiche”. Queste conoscenze interne hanno la caratteristica “camaleontica” di cambiare la sostanza o gli accidenti ogni qual volta è possibile pubblicare una delibera a tutto vantaggio delle élites decisionali e ad una inevitabile disinformazione strutturale per i non addetti ai lavori.

Emblematici sono i percorsi attuati nei territori per la realizzazione delle sempre più chimeriche Case della Comunità. Pochi cittadini/volontari sosterranno, una volta compreso l’inghippo tra CdC Spoke e CdC Hub, che la CdC spoke rappresenti la soluzione di un bisogno sanitario di quartiere a causa delle innumerevoli criticità che contagiano la loro quotidianità.

E’ curioso come l’ordine diffuso di mercato (termine sovrapponibile a globalizzazione o a neoliberalismo) si possa diffondere in una infinità di rivoli che permeano anche le piccole realtà locali (periferie). E così la ragionevolezza si smarrisce avvolta com’è dalle spirali della “gestione aziendale” che, immutabile nell’agire il potere economicistico, genera quel consumismo che si vorrebbe rimproverare ad altri (es.: ai cittadini o ai medici di famiglia).

Alcune associazioni di volontariato e numerosi cittadini disdegnano la “pesante indifferenza” istituzionale nei confronti della sanità. E’ una distanza molto sospetta e foriera di una profezia autoavverantesi (il fallimento del Servizio Sanitario Pubblico).

Numerosi sono gli indizi che dimostrano come il diritto alla salute sia diventato ormai un diritto potestativo cioè un potere volto a salvaguardare un interesse individuale o soggettivo (quello del mercato) e non un diritto chiaramente orientato a tutelare gli interessi della collettività.

In ogni caso non saranno alcune analisi e qualche riflessione a modificare il sistema della globalizzazione. Come studiosi di organizzazione sanitaria e di terzo settore si desidera comunque ragionare sul tema della “corresponsabilità tra interessi e diritti”, degli addebiti, dei tornaconti specifici, dell’assoluta mancanza di autocritica.

Gli interessi non vengono negati ma devono essere compossibili (possono benissimo stare insieme senza prevaricazioni) con i diritti. Nello specifico il Prof. Cavicchi supera il concetto di struttura (es.: economia) e sovrastruttura (es.: sociale o etica o bene universale non disponibile) perché in sanità i due concetti si sovrappongono. Infatti ciò che verrebbe individuata come sovrastruttura è determinata da una “pluralità” di fattori economici, organizzativi, gestionali e culturali che solo un sistema complesso può permettersi di affrontare. Il sistema “azienda”, lineare e singolare, non può atteggiarsi a modello efficace pena effetti distruttivi. Spesso nelle riunioni più o meno formali (es.: i già citati percorsi per le Case della Comunità che dovrebbero quindi relazionarsi con le persone che vivono nelle comunità) viene utilizzato un linguaggio sovrapponibile a quello delle alte dirigenze aziendali. Sembra di essere in un consiglio di amministrazione privato dove si argomenta di gestione di capitali, indubbiamente disponibili, da far fruttare.

Ecco quindi che in questa sovrapposizione tra struttura e sovrastruttura diventa dirimente l’azione della società civile o del volontariato. L’obiettivo è quello di “ricontestualizzare” l’art. 32 cioè di definire la compossibilità tra diritti, interessi (anche privati) e modalità operative relative.

Verosimilmente la globalizzazione non cederà di un millimetro perché “l’algoritmo” che sostiene questo ordine di cose si automantiene e si autogenera come nelle più classiche delle avventure fantascientifiche dove le macchine sottomettono l’uomo. Il disegno neoliberista non è un progetto consapevole, è autonomo e ha il carattere strettamente strategico (problem solving). Non è solo una ideologia o una politica economica, è soprattutto uno stile di vita, una specifica razionalità, una “felicità” pervasiva che influenza l’identità individuale e i rapporti sociali.

E’ un’omologazione competitiva e concorrenziale in grado di ipnotizzare gli individui verso quell’obiettivo. L’individuo calcolatore e responsabile è celebrato come ideale anche se questo dovesse comportare lo smantellamento di sistemi come quello sanitario o pensionistico o scolastico causando un impoverimento generalizzato. A fronte di tutto ciò però si potrebbero prospettare possibili conflitti sociali o sollevazioni che non si sa bene dove potrebbero arrivare.

Bruno Agnetti
Centro Studi Programmazione Sanitaria (CSPS) di Comunità Solidale Parma ODV

26 luglio 2024
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L’insostenibile fragilità dell’Atto di indirizzo sulle Case di Comunità

20 MAG - Gentile Direttore,

da circa due mesi si è conclusa la “consultazione pubblica” sull’Atto di Indirizzo Agenas (tramite compilazione di un questionario) sul tema della partecipazione/co-produzione nell’ambito delle Case della Comunità. Il documento è stato redatto da un gruppo di studio composto da rappresentanti delle Regioni e da professionisti definiti esperti sul tema della partecipazione di pazienti e cittadini alle questioni sanitarie.

Storicamente gli Atti di Indirizzo indicano, in modo piuttosto potestativo, il comportamento normativo desiderato dalle istituzioni. L’elaborato articola quali debbano essere i passaggi di partecipazione e co-produzione che Regioni, Aziende e Distretti metteranno in atto. A dispetto delle intenzioni quindi nulla di nuovo. La piramide gerarchica sanitaria resta saldamente inalterata così come sarà la valutazione finale della potentissima Conferenza Stato-Regioni.

E’ noto che i documenti ufficiali europei (es.: Piano di ripresa NextGenerationEU ) disegnano strumenti finanziari (in buona parte prestiti pluriennali). Ogni nazione ha poi concepito propri Piani Nazionali (PNRR) con i quali definisce l’utilizzo dei contributi straordinari europei (post-covid) per il periodo che va dal 2021 al 2026. Nessun documento europeo specifica che una azione di ammodernamento sanitario (es.: territoriale) debba realizzarsi con le Case della Comunità. Lo stesso Piano Nazionale (PNRR) indica la necessità di attivare iniziative in grado di promuovere “strutture di prossimità” per quanto riguarda le cure primarie e cita, solo come esempio, le Case di Comunità ma non esclude nessun’altra formalità.

Successivamente al Piano di ripresa NextGenerationEU e al PNRR sono sati pubblicati il DM77/2022 (regolamento recante la definizione di modelli e standard per lo sviluppo dell'assistenza territoriale nel SSN), il Metaprogetto, documentazioni varie di gruppi e di istituzioni locali. Per quanto riguarda il così detto territorio, le argomentazioni si sono polarizzate sul concetto di comunità (es.: Case della Comunità, Ospedali di Comunità). I criteri, “sui generis”, dettati dal “regolamento”, sono rigorosamente aderenti alle necessità Regionali, Aziendali e Distrettuali e potrebbero non coincidere con bisogni professionali o assistenziali. Questi parametri sono di difficile comprensione culturale se si considera la liquidità delle collettività e il desiderio, espresso dalle persone di buona volontà, di ripensare alla complessa preparazione del terreno per favorire nuove germinazioni comunitarie. Se la comunità non c’è più, così come non esistono le collettività, come è possibile seguire una programmazione che manca di solidi presupposti? Nel recente passato qualche timido tentativo di ricostruire, faticosamente, un delicato tessuto comunitario è stato misconosciuto dai rappresentanti istituzionali. Come è possibile che ora le stesse Alte Dirigenze, per normativa, diventino sensibili ad aspetti sociali/sanitari complessi quando le culture dominanti amministrative sono neoliberali, economicistiche, aziendalistiche e lineari?

In una società riconosciuta da molti studiosi come liquida occorre molta preparazione per riconoscere e valorizzare piccole formazioni comunitarie che sono riuscite, miracolosamente, a sopravvivere alla globalizzazione. Taluni rappresentanti istituzionali hanno dimostrato inadeguatezza verso questi riconoscimenti mentre le mappe e i profili territoriali (non solo relativi all’appropriatezza/risparmio prescrittivo) avrebbero dovuto essere un patrimonio fondamentale per le Aziende. Alcune preziose progettualità e risorse sono state bellamente ignorate determinando così l’esaurimento di esperienze di co-operazioni volontariato/cittadini/professionisti storiche. Se fosse capitato qualche cosa di simile nelle aziende condotte da Olivetti o da Mattei o da Ford avrebbero comportato parecchi licenziamenti.

Un concreto processo di partecipazione (e/o di co-produzione) avrebbe dovuto comprendere il principio di un completo coinvolgimento nel processo decisionale dall’inizio alla fine. Tuttavia la cascata normativa burocratica non ha contemplato questa ipotesi così che, ora, occorre rincorrere determinazioni già decretate up-down.

Infatti, nel testo dell’Atto di Indirizzo, si nomina "l’utilizzabilità” (disponibilità?) delle così dette modalità di partecipazione che verosimilmente saranno poste al giudizio delle stesse Alte Dirigenze Regionali, Aziendali, Distrettuali. La programmazione e il governo della “produzione” Aziendale presenta una certa “complicazione” lineare che richiama suggestioni relative alla globalizzazione, ad orientamenti neoliberali, al consumismo sanitario di origine aziendale (consuetudini conosciativistiche?) causa di differenziazioni (discriminazioni?) professionali e assistenziali. Ogni argomentazione sulla partecipazione non può esimersi dal considerare queste criticità. E’ necessaria, come l’aria, una assoluta trasparenza e la capacità di riconoscere ruoli non tanto di partenariato ma di leadership. In caso contrario tutto diventerà ancora più confuso ed ambiguo. Meraviglia come nel testo non si nomini mai la libera scelta fiduciaria del mmg come strumento fondamentale (sovrapponibile ad una elezione politica/apartitica) per tentare di ricostruire una identità condivisa territoriale e si preferisca citare il consenso informato che è un dispositivo di credito informativo, più attinente alla specialistica/dirigenza/dipendenza, per nulla commensurabile con la libera scelta fiduciaria. All’interno di questo rapporto ci si relaziona, (es.: in team) più con persone e problemi che con malattie o patologie specifiche come invece può avvenire a livello ospedaliero ( es.: équipe chirurgica).

Nell’interessante e lungo elenco bibliografico, riportato alla fine del documento, si richiamano pubblicazioni del periodo pre-covid, che ragionano da Case della Salute (le Case della Comunità sono effettivamente una miglioria nei confronti dei contenuti relativi alle Case della Salute?). Si può altresì notare una ostinata ricerca di modelli esteri senza che vi sia una validata sovrapponibilità operativa di quegli esempi con la nostra eterogenea realtà nazionale già considerata, a suo tempo, una delle migliori organizzazioni sanitarie al mondo.

Bruno Agnetti

Centro Studi Programmazione Sanitaria (CSPS) di Comunità Solidale Parma ODV-Runts

20 maggio 2024

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case della salute

Dotazioni infrastrutturali e Case della Comunità

08 MAG - Gentile Direttore,
come Centro Studi di Programmazione Sanitaria (CSPS) composto da cittadini dell’Associazione di Volontariato Comunità Solidale Parma (ODV-Runts) ci occupiamo in particolare di sostenere e proteggere le cure primarie di quartiere considerate bene comune per una comunità. Abbiamo letto con molta curiosità l’intervento che il Prof. Ivan Cavicchi ha pubblicato su QdS (Le dotazioni infrastrutturali? Sono il cuore della “quarta riforma”, ma è ciò che manca nella maggior parte delle proposte in circolazione) il 30 aprile 2024. CSPS ha considerato utile interrogare direttamente il Prof. Cavicchi per sapere cosa si debba intendere per “dotazioni infrastrutturali” e, con il permesso dello stesso Prof. Cavicchi, riteniamo possa essere utile rendere pubblico il carteggio intercorso in favore di qualche collega interessato al tema.

“Il concetto di infrastruttura, in urbanistica vuol dire “servizi di servizi” cioè strutture secondarie o complementari al servizio di strutture primarie finalizzate per il raggiungimento di certi scopi.  Per esempio l’ospedale è una struttura pensata per ricoverare i malati essa tuttavia, per curare i malati ricoverati , ha bisogno di certe infrastrutture senza le quali la sua funzione sarebbe impossibile da svolgere.
In logica “struttura” è un concetto del “primo ordine” , quello che in sanità stabilisce i caratteri di base dei servizi mentre “infrastruttura” o “sovrastruttura” è un concetto del “secondo ordine” cioè è l’insieme di regole senza il quale l’ospedale come struttura non potrebbe funzionare.
Quindi il problema è semplice:
• non si può avere in sanità una struttura senza sovrastruttura
• se si vuole in sanità cambiare una struttura bisogna cambiare la sovrastruttura e/o l’infrastruttura
• qualsiasi cambiamento di una struttura a sovrastruttura/infrastruttura invariante è fallace cioè è un cambiamento farlocco.
Come ho già scritto (QS 6 maggio 2021) le Case di Comunità previste dal PNRR (missione 5) sono un cambiamento farlocco perché ripropongono la struttura del poliambulatorio specialistico della defunta Inam ma con una doppia invarianza:
• quella sovrastrutturale tipica degli ambulatori della mutua
• quella aziendale che oggi sovraintende tutte le strutture sanitarie quindi compresa la Casa della Comunità
La Casa della Comunità anziché essere gestita direttamente dalle mutue, come ai tempi dell’Inam, oggi è gestita dall’Azienda. Quindi in modo verticistico e monocratico nel senso che, nella sua idea di gestione, la comunità è esclusa. Cioè sono esclusi sia i cittadini che gli operatori che compongono la comunità. Cioè l’idea di comunità in quella di Casa della Comunità non implica, come nell’idea generale del Welfare Community, una partecipazione sociale dei soggetti ma (per la semplice ragione che la partecipazione sociale è in piena contraddizione con la gestione aziendale), se a gestire i servizi ci fosse la comunità… l’azienda non sarebbe più azienda.
Per cui l’inganno.
Siccome l’azienda non è in discussione (anche se dovrebbe esserlo) ad azienda invariante il PNRR fa finta di cambiare le strutture ma senza cambiarle.
Ho già spiegato ampiamente le mie perplessità nei confronti di una sinistra che dimostra con il PNRR e con il DM 77 e il DM 70 di essere del tutto priva di un orizzonte riformatore e di essere prigioniera delle sue controriforme neoliberiste .
A queste perplessità mi permetto di aggiungere anche quelle nei confronti di quella cultura cattolica che seguo con interesse e che però incassa come un successo la “Casa di Comunità” rendendosi complice di un inganno sociale bello e buono.
Ingannare le persone è ingannare la comunità.”

Ringraziamo il Prof. Ivan Cavicchi per la squisita cortesia che ha voluto riservare ai nostri dubbi così che le elaborazioni culturali, a cui in nostro gruppo si dedica, possano essere epistemologicamente coerenti. Pare che il noto DM77 non apporti quindi nessuna sostanziale innovazione anzi il tema del “debito orario” dei mmg nei confronti dell’attività che dovrebbero essere svolte nella così detta “Casa della Comunità Hub” non può che aggravare la situazione organizzativa irreversibilmente, di giorno in giorno, senza che la narrativa sulle CdC abbia prefigurato un compenso sostanziale per le comunità (liquide?). Non si può nemmeno pensare di poter affrontare un tema così complesso come quello delle relazioni tra persone o delle comunità applicando il principio filosofico del decostruzionismo (Derrida, Heidegger) molto accademico, tuttora in via di dibattito e poco adatto a percorsi formativi dedicati a volontari delle CdC. Nel complesso appare che la questione sanità/salute e, nello specifico la riforma del territorio, sia così ingarbugliata e avanzata nelle sue contraddizioni interne ed esterne (globalizzazione e neo-liberalismo) che solo una movimento bipartisan, cioè un accordo condiviso e accettato da tutte le parti politiche parlamentari, può riformare (secondo la cornice della “quarta riforma”) e difendere la più importante opera pubblica del nostro paese: il SSN.

Se le comunità non ci sono più non possono nascere per normativa. Non ci sono nemmeno le collettività ma le connettività. Il plurale è drammaticamente diventato singolarismo. Per riuscire a convivere in un sistema-mondo complesso alcuni autori suggeriscono di provare ad orientarsi verso processi operativi ( es.: le buone esperienze topiche professionali e di volontariato, in atto da numerosi anni, ritenute di serie B dall’apparato decisionale che ha sempre preferito relazioni consociativistiche che, a loro volta, hanno condotto ad una situazione che, agli occhi dei cittadini e dei professionisti, è fortemente ammalorata) o sperimentali, anche se dopo poco inesorabilmente ci si ritroverà in un successivo sistema complesso. Proprio su QdS del 6 maggio 2024 Ivan Cavicchi ci regala un metodo straordinario che dovrebbe diventare il bagaglio fondamentale di ogni leader affidabile generativo di una eventuale principio di comunità (es.: il mmg fiduciario): l’imperativo categorico che inevitabilmente ci fa’ ricordare quel che resta di Ippocrate. In particolare Cavicchi richiama la frase di S. Agostino “Dilige et fac quod vis” (Ama e fa quel che vuoi)… Con una semplificazione ardita, speriamo non blasfema, si potrebbe dire: ama questa professione impareggiabile per professionisti e assistiti…. Il resto verrà tutto da sé. Ne consegue che amare non può stare con l’ignoranza, lo speculare, l’avvantaggiarsi o l’ingannare. Così come la non verità non ha nulla a che fare con l’amare.

Bruno Agnetti
Presidente Centro Studi Programmazione Sanitaria (CSPS) di Comunità Solidale Parma ODV-Runts

Giuseppe Campo
Centro Studi Programmazione Sanitaria (CSPS) di Comunità Solidale Parma ODV-Runts

Vito Alessandro D’Ercole
Centro Studi Programmazione Sanitaria (CSPS) di Comunità Solidale Parma ODV-Runts

Maina Antonioni
Centro Studi Programmazione Sanitaria (CSPS) di Comunità Solidale Parma ODV-Runts

08 maggio 2024
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La narrazione favoleggiante sulle Case di Comunità

29 APR - Gentile Direttore,
sul tema “comunità”, che per estensione potrebbe inglobare anche il termine “Case della Comunità”, sembra proprio che Bauman e altri pensatori insieme a lui (Zamagni, Cavicchi, Benasayag, Byung-Chul Hann, Benanti, Floridi, Mortari, Morin…) abbiano scritto inutilmente le loro opere. Se le varie forme di “comunità” si sono liquefatte sotto i colpi della globalizzazione, dovrebbe apparire paradossale, una vera contraddizione in termini, imporre, oggi, per normativa, strutture edilizie in conto capitale definite “Case della Comunità” (CdC). Forse sarebbe stato più lineare continuare a definirle “Case della Salute” (CdS).

La vulgata che le CdC siano una innovazione nei confronti delle CdS in quanto nelle CdC verrebbero inseriti, in modo tutt’ora incomprensibile, il terzo settore e il sociale non corrisponde al vero: basta leggere i documenti riferibili alle CdS (2010) ed eseguire una banale ricerca per parole chiave. Così come potrebbe essere sorprendente scoprire che i temi dell’ambiente e del contesto (oggi è di tendenza il temine “one health”) sono già ricompresi addirittura nella legge 833 del 1978. 

La narrazione favoleggiante sulle CdC è quindi triste ed infelice dall’inizio, manca di trasparenza, è informativamente asimmetrica. Non risolverà i gravi problemi che discriminano assistiti e professionisti in quanto differenziati nella fruizione dei servizi. Pare ancora una volta che la visione individualistica e consumistica aziendale abbia il sopravvento e manifesti l’incapacità di sperimentare nuovi assetti comunitari immersi nella molteplicità della complessità e che rifiutano la gerarchizzazione proprio perché gli assistiti ed i professionisti non sono riducibili ad una rigida dimensione.

In ogni caso l’istinto ontologico volto a creare piccole comunità potrebbe trovare, in ambito sanitario, un estremo appiglio proprio nella relazione fiduciaria (rito collettivo?) che contiene in sé aspetti pattizi ed etici.

Le situazioni di commissariamento e sub-commissariamento che perdurano, anche in realtà unanimemente considerate modelli per il paese, non aiutano né a cogliere il significato di siffatte precarietà gestionali/organizzative né a limitare le problematiche che tendono a deteriorarsi di mese in mese. Il caos non permette mai di conoscere una strada da seguire ma abbandona le persone e i professionisti di buona volontà ad un orizzonte impenetrabile.

E’ commovente come, ancora una volta, nelle regioni dove le Ausl si reputano, in modo autoreferenziale, le più avanzate, siano state organizzate, dalle Aziende Sanitarie insieme alle Amministrazioni Comunali, all’Università e ad alcune Associazioni estranee ai territori di interesse, percorsi formativi per i soggetti che direttamente o indirettamente dovranno, secondo gli intenti, popolare le CdC. I percorsi dovrebbero servire ad accompagnare la così detta “partecipazione dal basso”. Fotocopia di quanto è già capitato all’inizio della stagione consociativista per le Case della Salute con i risultati che sono di fronte agli occhi di tutti.

Secondo la letteratura, l’attività di condivisione delle scelte sanitarie pubbliche che interessano i cittadini di un quartiere dovrebbero seguire le regole della co-operazione e riguardare l’intero processo decisionale. Significa che bisognerebbe partire insieme, allineati e parificati, nel rispetto delle specificità non gerarchiche ma curriculari. Il primo step è quello dell’ideazione. Poi si passa alla progettazione, di seguito alla realizzazione per poi terminare con la sperimentazione e la stabilizzazione. Il compendio è dato dalla rendicontazione rivolta ad es.: alla popolazione di un quartiere da parte dei professionisti fiduciari di riferimento che sovraintendono l’intero processo. Quando invece le istituzioni sovraordinate (es.: DM77, Metaprogetto, Regione, Ausl, Amministrazioni locali, Associazioni nazionali…) cercano di convincere i diretti interessati “ad integrarsi” alla fine del processo, cioè dalla coda, allora la trasparenza fa difetto e si crea quella che si definisce una asimmetria informativa. Ed è qui che casca l’asino.

Desta oltremodo meraviglia che le istituzioni (e di conseguenza i processi di formazione da loro attivati) non siano nemmeno in grado di conoscere e di valorizzare esperienze che negli anni si sono dispiegate sotto il loro naso. Oltre alla cronicità e alle fragilità esistono anche persone della 3° e 4° età ancora in buona salute che avrebbero un grande vantaggio nel poter usufruire di servizi sociosanitari completi in una struttura di quartiere raggiungibile in 15 minuti dalla propria abitazione. Si dovrebbe considerare che numerosi pensionati e anziani, ormai mediamente alfabetizzati in ambito sanitario se non addirittura intellettuali del settore, sono in grado di avvalorare ancor di più la stratificazione generazionale professionale, i quartieri e il volontariato. Soprattutto non gradiscono essere considerati manovali prestazionali finalizzati all’efficientamento di disservizi di competenza pubblica.

Le notevoli risorse utilizzate per dare vita a Comitati di Indirizzo, Gruppi di Progetto, Patti Sociali, Percorsi Formativi hanno ignorato il contesto specifico, hanno coinvolto associazioni esterne ai quartieri o ingaggiato soggetti privi di curriculum coerente. Si è arrivati perfino a sostenere modelli amazzonici (sic!) per i “nostri” territori.

Dalla stagione delle “Case della Salute” ciò che non è mai stato effettivamente risolto è la necessaria parità di risorse di partenza per cittadini e professionisti (strutturali, organizzative, gestionali ed economiche). Molti pazienti, di fatto ma non di diritto, e i loro professionisti sono quindi diventati, da numerosi anni, di serie B. Tuttavia, i mmg, ancora punti di riferimento per una popolazione, anche se discriminati, tentano di risolvere i bisogni dei loro assistiti nel miglior modo possibile. Non si può però pretendere da questi medici più di quello che fanno anche perché, se il SSN sta ancora in piedi, molto è dovuto al loro silenzioso e quotidiano lavoro di prossimità. Il pensiero unico, che si auto assolve sempre da ogni responsabilità, non si è mai interessato fattivamente delle competenze delle piccole comunità forse irritato da una loro, ormai esigua, autonomia (che verrebbe eliminata completamente dalla dipendenza). Spesso ne hanno ostacolato l’operatività tanto che, nelle inevitabili difficoltà, prontamente puntano il dito su un presunto insufficiente volontarismo di professionisti e cittadini.

Bruno Agnetti
Centro Studi Programmazione Sanitaria (CSPS) di Comunità Solidale Parma ODV

29 aprile 2024
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“Comunità”, termine inflazionato?

08 APR - Gentile Direttore,
“In quel paese che sorge in qualche angolo dell’Italia… nella pianura del Po… ciascuno lotta a suo modo per costruire un mondo migliore… e qui accadono cose che non accadono in nessuna altra parte del mondo…”. Si diceva così nel film (1952) tratto dal romanzo di Giovannino Guareschi, “Don Camillo”.
Il termine “comunità” diventa dominante, in particolare nelle alte amministrazioni e nelle alte dirigenze, (salvo realtà germogliate nel volontariato in tempi non sospetti dopo lunga meditazione e condivisione) dopo i suggerimenti contenuti nel PNRR. Risente di contingenze e di modifiche interpretative e, per questo, è poco autorevole: non ha avuto il tempo di generare una narrazione veritiera. Non crea coraggio. E’ disfunzionale. Non crea comunità e viene percepita come un surrogato intellettuale che offre un finto senso di identità a buon mercato.

Non è il modello di cure primarie del Brasile o quello Portoghese (sic!) pur tuttavia emerge, nel “mondo piccolo”, qualche esperienza sanitaria di base o territoriale, ben “stagionata”, che potrebbe ottenere miglior fortuna a fronte di ipotesi di tendenza ma alquanto salottiera.

Purtroppo non sono gli appelli o le petizioni che modificheranno la brutta china scivolosa nella quale si trova il nostro sistema sanitario (in particolare quello territoriale). Le cause sono note. La presenza, tra i firmatari delle istanze, di persone che meritano un indiscutibile rispetto non nasconde il fatto che vi siano responsabilità storiche perfettamente identificabili.

La criticità relativa al finanziamento è certamente un argomento serio. La globalizzazione e l’egemonia finanziaria alimenta un consumismo che tende all’infinito. Di conseguenza i fondi non saranno mai sufficienti se oltre all’aspetto economico/finanziario non si associa una solida riforma compossibile previo ampio dibattito pubblico con i professionisti e i cittadini o almeno parlamentare. In questi anni la Conferenza Stato Regioni ha esercitato un ruolo decisionale quasi egemonico con la propria Commissione Sanità continuamente presieduta dai rappresentanti di una o due regioni: la sola questione danarosa quindi potrebbe apparire come un ineccepibile alibi piagnucoloso al fine di oscurare i pregressi processi decisionali controriformisti o esigenze di apparato.

Il mondo della sanità si sta orientando in senso opposto alla 833? Il nostro paese non ha una sovranità tale da potersi opporre, a livello sanitario, al consumismo neo-liberale? Lo si dica chiaramente e forse la società civile, stanca di gestioni consociativistiche e deludenti, troverà una soluzione già sperimentata nella sua storia di associazionismo e di auto-aiuto.

Se invece si considera la sanità una delle più importanti opere pubbliche della nostra nazione occorre trovare il modo di non abbandonare questo bene comune ricorrendo, con responsabilità bipartisan, a modelli come il Welfare di Comunità (vero!) elaborato da Stefano Zamagni e al medico autonomo/autore di Ivan Cavicchi.
La riforma 833/1978 è stata crivellata, dalla sua promulgazione ad oggi, da una infinità di controriforme (nazionali e locali) che l’hanno sostanzialmente annullata.

Attualmente l’asfissiante chiacchiericcio sulle Case della Comunità, Ospedali di Comunità, Distretti, dipendenza dei mmg ecc. sembra voler nascondere la mancanza di una cultura sanitaria pubblica.

La comunità, secondo Aristotele, non è definita da un luogo, da un ambito geografico o da una struttura (CdC) ma dal fatto che un gruppo di cittadini siano in grado di garantire una buona vita alle persone di un territorio affinché possano sviluppare una esistenza indipendente e autonoma pur all’interno di una reciproca solidarietà così che concretizzi una vita degna di essere vissuta. La comunità (contenuta nei numeri) è prioritaria rispetto ad un individuo anche se, proprio grazie alla solidarietà degli altri, lo stesso soggetto singolo può sviluppare la propria individualità.

Infatti la persona non solo è un vivente politico-sociale-comunitario ma è anche l’unico essere che ha il logos cioè il linguaggio-ragionamento “prudente/calcolante” ed è in grado, con la ragione e il dialogo, di stabilire, ad esempio, forme di assistenza misurata (es.: da parte dei mmg) e proporzionata per quella comunità affinché non prevalgono logiche individualistiche dannose (es.: un consumismo amministrativo).
Ciò che dà valore “unico” ad una comunità raccolta intorno ai propri mmg di riferimento sta nel fatto che, in questo modo, è possibile soddisfare i bisogni dei suoi componenti seguendo il criterio di “finitezza” a sua volta sostenuto dal tessuto solidale. Da questo punto di vista potrebbe apparire irragionevole e solo economicistico mettere in campo un costoso meccanismo di appropriatezza prescrittiva. Chi se non il mmg può aiutare le persone, che lo hanno scelto fiduciariamente, ad inserire nel loro bagaglio culturale il concetto del limite, della misura, financo che la vita ha un termine? Non saranno certo le istituzioni o le alte dirigenze o le amministrazioni o i protocolli o gli algoritmi a poter comunicare empaticamente tali riflessioni.

Contrariamente alcuni recenti movimenti filosofici, immersi in una realtà neoliberista, tendono a promuovere una vita illimitata e senza termine (trans umanesimo e post umanesimo). Così la società consumistica opterà per un soddisfacimento dei desideri individuali con quella smania di illimitatezza che corrisponde alla massima distanza dalla ragione. Questa cultura che penetra anche le istituzioni e i gruppi culturali satelliti porta alla disgregazione del tessuto comunitario e della sua tenuta etica. La mancanza di limite riproduce sempre lo stesso ciclo di produzione consumistica tanto da arrivare ad utilizzare i cittadini (volontari, professionisti, assistiti) come semplici strumenti operativi.

La comunità giusta è quella che non è troppo grande né troppo piccola, non ha troppi abitanti né troppo pochi, non conta persone troppo ricche né troppo povere. E’ una popolazione che necessita quindi di un auto-controllo autonomo interno grazie ad individualità specifiche solidali (es.: mmg fiduciari) e all’alternanza tra il governare e l’essere governati perché, questo, è il vero abitare la democrazia.

Tommaso (che avrebbe volentieri voluto battezzare Aristotele), sostiene che, nel caso vi fosse pericolo per la comunità e il bene comune, sarebbe lecita la “perturbatio” cioè la ribellione in quanto significherebbe disubbidire ad una tirannide e obbedire a Dio.

Bruno Agnetti
Centro Studi Programmazione Sanitaria (CSPS) di Comunità Solidale Parma ODV

08 aprile 2024
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Una formula esemplificativa può essere considerata una affermazione cogente?

Gentile Direttore,

nel 2021 l'Unione Europea ha regolamentato il noto strumento finanziario (PNRR) per supportare la ripresa negli Stati membri dopo il periodo Covid. Nel 2022 è stato emanato il Decreto Ministeriale (DM77) che descrive i nuovi modelli e gli standard per lo sviluppo dell’assistenza territoriale del SSN (Casa della Comunità, Numero europeo per la Centrale Operativa, Centrale Operativa Territoriale, Infermiere di Famiglia e Comunità, Unità di Continuità Assistenziale, Assistenza Domiciliare, Ospedale di Comunità, Rete delle Cure Palliative, Servizi per la Salute dei Minori-delle Donne-delle Coppie-delle Famiglie, Telemedicina).

Nel 2023 la modifica del PNRR presentata dal Governo italiano non ha modificato la Missione 6 (potenziamento e creazione di strutture e presidi territoriali, il rafforzamento dell’assistenza domiciliare, lo sviluppo della telemedicina ed una più efficace integrazione con tutti i servizi socio-sanitari). Nello stesso 2023 viene istituito un tavolo tecnico (affollatissimo) dal Capo di Gabinetto del Ministero della Salute con il fine di studiare le criticità emergenti sanitarie anche se nei vari sottogruppi non è stato espressamente indicata, come materia da indagare, il riordino delle cure primarie. Di conseguenza si può ritenere che il DM 77 non contenga particolari criticità relative all’organizzazione assistenziale territoriale.

Gli interventi riportati su QdS in merito alla medicina generale sono stati molto interessanti, operativi e pragmatici. Le diverse sensibilità sono tutte meritevoli di attenzione (es.: mmg dipendenti o mmg liberi professionisti convenzionati autori/opera di se stessi). Nondimeno sarà concesso a qualche “spettatore”, di approfondire alcuni contenuti con l’angolo di osservazione dell’assistito che, per ragioni varie, frequenta gli ambulatori dei mmg.

L’intento dell’esercizio è quello di analizzare se in qualche costrutto teorico possano celarsi antinomie o contraddizioni in grado di minare nelle fondamenta le stesse ipotesi a discapito dei pazienti e dei loro medici di base di riferimento.

Il latte è stato frettolosamente versato e le norme sono state emanate per la soddisfazione di aziende e regioni.  È facilmente prevedibile che dopo la cornice, sufficientemente regressiva, del recente ACN, le regioni, nella loro già smisurata autonomia in tema sanitario, recupereranno il terreno e re-interpreteranno l’intero DM77 “pro domo eorum” con la pubblicazione degli Accordi Regionali.

Nel postulato di base del PNRR (assunto poi pienamente dal DM 77 e nel divinizzato pensiero unico dominante che incensa in ogni dove le Case della Comunità spoke) si afferma che per adempiere alla Missione 6 punto 1 sia opportuno erogare prestazioni, creare strutture e presidi territoriali. Questa affermazione è subito seguita da una parentesi che inizia con un “come”. In che modo va interpretato il “come”? Secondo la Treccani il termine “come” potrebbe essere considerato un avverbio di maniera (esemplificativo, al modo di) senza per forza significare una iniziativa a carattere cogente. Se così fosse sorge spontaneo il dubbio che il punto 1 della Missione 6 possa essere raggiunto anche con altre modalità più adatte alla complessità e alla compossibilità tipica delle cure primarie (es.: con il potenziamento strutturale e funzionale, su tutto il territorio nazionale delle medicine di gruppo e dei NCP seguendo anche le linee guida professionali Wonca singolarmente nemmeno nominate nel DM77 e nel recente ACN).

Le leggi e gli accordi sono comunque varati e la nave ha impostato una rotta (improbabile). La soffocante narrazione unica (incantatrice, contagiosa e foriera di relativismo etico) insiste sui grandi benefici delle Case della Comunità spoke che tuttavia presentano, nella concretezza, un’offerta di servizi carente e nemmeno paragonabili alla reale operatività di una qualsiasi Medicina di Gruppo ben organizzata.

Comunità Solidale Parma, associazione di volontariato (ODV), grazie alla disponibilità dei volontari facilitatori, sta realizzando una piccola indagine (questionari e interviste) rivolta ai pazienti che frequentano l’ambulatorio/medicina di gruppo. La finalità è quella di sondare uno stato d’animo e il clima emotivo degli assistiti nei confronti della medicina generale di base e delle informazioni che le persone ricevono dai media in merito a questo tema. Da una prima stima molto parziale, non analitica e casalinga, emerge che su 100 assistiti adulti, frequentatori della medicina di gruppo il 47% non sa cosa sia una “Azienda” sanitaria; il 71% considera il rapporto fiduciario con il mmg fondamentale e non vorrebbe che il medico di base diventasse un dipendete pubblico; il 57% si augura che il SSN abbia una direzione nazionale e non regionale e il 66% vorrebbe cimentarsi, autonomamente, nell’intero processo decisionale su questioni che riguardino la comunità o il quartiere nella convinzione che la medicina generale vada considerata un bene comune per una popolazione. Il 68% degli assistiti contattati hanno dichiarato di non sapere quale sia la differenza tra Casa della salute e Casa della Comunità. Percentuali molto elevate e positive, 82%, hanno ricevuto le domande che indagavano il gradimento degli assistiti verso il ruolo di servizio dei volontari facilitatori presenti tutti i giorni in ambulatorio con la funzione di aiutare l’accesso e l’orientamento degli assistiti soprattutto quando le questioni richiedono accoglienza affettuosa e parole cordiali.

Alcuni comportamenti all’interno delle piccole comunità guidati dall’etica professionale e collettiva possono interagire in modi complessi ma sono in grado di riformulare il futuro sanitario. Indipendentemente dalle norme già varate nulla impedisce di pensare a nuovi modi di fare le cose capaci di rendere culturalmente inutili quelle attualmente proposte (già avvizzite al loro apparire).

Bruno Agnetti

Centro Studi Programmazione Sanitaria (CSPS) di Comunità Solidale Parma ODV

04 marzo 2024

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case della salute

Per una filosofia delle cure primarie

Gentile Direttore,
in un articolo del 3 novembre il prof. Ivan Cavicchi ha sostenuto che fosse, in primis, necessario dire almeno qualche verità sulla situazione attuale del SSN per pensare ad una efficace riforma sanitaria. Questa ricerca della verità può essere facilitata in periferia dove i professionisti e le comunità possiedono una abilità originale nel leggere la professione e l’evoluzione sociale. All’origine della cultura occidentale sono state proprio le colonie ioniche o quelle della Magna Grecia che hanno contribuito alla sua diffusione più di quello che aveva fatto la madre patria (Atene).

Il tema dell’integrazione può essere un esempio emblematico di come la periferia riesca a superare di molto le elaborazioni istituzionali burocratiche. Molti mmg hanno creato spontaneamente reti di relazioni che permettono di operare in modo integrato. Il servizio territoriale del SerDP da sempre realizza un’integrazione quotidiana, strutturata tra medici, psicologi, servizi sociali, attività educative, infermieri, iniziative sperimentali ed innovative con volontari ed assistiti. È un modello ben rodato, interno al SSN, che avrebbe potuto essere utilizzato come schema formativo ed operativo per altri servizi territoriali e per la medicina di base indipendentemente dalla presenza o meno di strutture in conto capitale (Case della Comunità).

Malgrado questo le istituzioni (soprattutto regionali e aziendali) fanno a gara per ricercare modelli “esotici” di riordino del sistema di integrazione territoriale. In questi ultimi anni è cresciuto sempre di più, tanto da diventare “di tendenza”, il modello brasiliano (sic!). Qualche tempo fa erano “di gran moda” le Case della Salute spagnole o la pianificazione delle Cure Primarie portoghesi: a guardar bene sistemi completamente diversi dall’attuale SSN Italiano (es.: i mmg in quei paesi sono dipendenti).

Desta veramente meraviglia come i decisori possano essere così masochisti e incapaci di ascoltare o di vedere ciò che di prezioso c’è nel nostro territorio. Questa interminabile autoreferenzialità delle oligarchie porta il tutto al macero.

L’elenco delle contraddizioni inattendibili contenute nei documenti sanitari ufficiali e nelle elaborazioni delle agenzie culturali sono numerose. Si possono ricordare solo alcuni temi.

Il PNRR pur essendo uno “strumento finanziario” viene considerato dai più una riforma.

Il DM77 che palesemente “non spicca per innovazione” trascinerà comunque con sé per anni le incoerenze strutturali e regressive negli ACN, negli Accordi Regionale e in quelli Aziendali/locali.

Il concetto di “governance” è diffusamente percepito dagli operatori come un termine completamente sovrapponibile ad una rigida forma di governo di controllo assoluto e autoritario pur ammantato da affabilità.

“L’assistenza centrata sul paziente” è e sarà inesistente come dimostrato delle infinite, irrazionali e antiscientifiche liste d’attesa.

Finta è la valorizzazione delle comunità, del volontariato, del terzo settore ma anche dei professionisti di periferia che vengono coinvolti nel processo decisionale ex-post, in senso consultivo e solo se funzionali a quanto già deciso nei palazzi.

I Distretti raffigurati come “mera articolazione organizzativa delle Aziende” hanno dimostrato negli anni di essere fortemente regressivi e di non saper leggere i bisogni delle popolazioni, tuttavia continuano ad essere osannati ed incensati come elementi di innovazione.

I commissariamenti che perdurano da anni anche in realtà considerate eccellenti (luogo comune?) restano incomprensibili perché, indirettamente, avvallano il pensiero che in quei territori non vi siano individui in grado di svolgere le funzioni istituzionali stabilite dalle normative.

La questione della dipendenza o della libera professione convenzionata dei mmg non è “futile” ma sostanziale in quanto “l’orizzonte degli eventi” si modifica radicalmente. Anche se solo si trattasse del “diritto di critica” del dipendente che può essere esercitato solo all’interno di precisi limiti (come da sentenza della Cassazione 17784/2022) e, se non rispettati, un eventuale esternalizzazione avversa può essere soggetta alle conseguenze di una Commissione Disciplinare Aziendale.

Le Case della Comunità (in conto capitale) sono in affanno per la difficolta di armonizzare le “mura” con un conto corrente (cioè la funzionalità quotidiana strutturata). Forse perché contradditorie, inadeguate ai bisogni dei territori, generatrici di discriminazioni professionali e assistenziali, ideate up-down prima ancora di sapere cosa e chi contenere. Il sistema è in difficolta e pare non poter essere equanime nell’offrire, a tutti i mmg che dovessero fare richiesta, una CdC. Gli edifici detti edifici “spoke” sono palesemente inadatti tanto che non possono nemmeno essere considerati equivalenti ad una semplice Medicina di Gruppo ben organizzata. Se si analizzassero adeguatamente i bisogni dei territori ci si accorgerebbe che le CdC, sia “hub” che “spoke”, non potranno mai risolvere i problemi anche se il martellamento pubblicitario esercitato dagli addetti ai lavori può generare un bisogno (consumistico) nei cittadini senza che questi sappiano di cosa effettivamente si tratta.

Per non parlare, infine, del sistema di formazione continua ECM che, se confrontato con le infinite possibilità di aggiornamento in tempo reale per professionisti interessati alla propria “opera”, appare, quanto meno, arcaico.

Quale “futura riforma” potrà mai essere elaborata oggi dagli stessi soggetti che dominano la sanità da anni e che l’hanno portata alle corde? Non è possibile fare bene ed essere di qualità se ci si è disinteressati della dimensione (spesso inespressa) che caratterizza il contesto e le relazioni tra coloro che vivono la quotidianità territoriale delle cure primarie.

Le numerose incoerenze emergenti richiederebbero la mobilitazione delle forze culturali sensibili al tema della salute, dei professionisti e dei cittadini al fine di ricercare principi di Verità/Giustizia/Etica coerenti, razionali, compossibili. In questo senso una filosofia dell’organizzazione territoriale delle cure primarie può proporsi di utilizzare il sapere (nella sua essenza) a vantaggio della vita delle persone (Platone) e dei professionisti a fronte di una medicina amministrata funzionale solo per agli apparati. Il filosofo infatti assume la medicina come modello di una metodologia per raggiungere il sapere e per uscire dalle contraddizioni derivanti da una conoscenza esclusivamente teorica (es.: burocratico/amministrativo/di controllo) ma priva di aperture sull’esperienza.

Bruno Agnetti
Centro Studi Programmazione Sanitaria (CSPS) di Comunità Solidale Parma ODV

14 novembre 2023
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