Cure primarie. “Connettere e coalizzare le risorse per rilanciare il Ssn: l’avvio di un’azione comune”

Avviare un percorso collaborativo per la difesa, ripensamento e rilancio del Ssn e giungere a proposte unitarie e condivise, da porre ai decisori politici. Questo l’esito di un incontro promosso dall’Alleanza per la Riforma delle Cure Primarie in Italia, che ha visto la partecipazione di sindacati, ordini professionali, società scientifiche e associazioni.

13 SET -

Condivisione di un documento sulla crisi del Ssn e su proposte per aumentarne la resilienza, la sostenibilità, l’equità e l’universalismo, stilato dall’Alleanza, ma aperto al contributo di tutte le organizzazioni interessate a collaborare al comune obiettivo di salvare “il diritto alla salute” nel nostro Paese.

Questo il tema dell’incontro promosso dall'Alleanza per la Riforma delle Cure Primarie in Italia,[1] organizzato lo scorso 9 settembre. All’incontro hanno partecipato, oltre ai partner dell'Alleanza, anche rappresentanti di sindacati, ordini professionali, società scientifiche, associazioni: Cgil e Uil, Fvm, Fnofi, Simg, Simccp , Cittadinanzattiva, Forum Diseguaglianze e Diversità, Associazione L’altra Sanità, Coalizione Civica per Bologna, CrAMC.

Il Ssn da salvare: perché? I presenti hanno convenuto che il Ssn è oggi “gravemente ammalato” e vive una situazione di profonda crisi che sta mettendo in discussione i principi fondamentali di universalità, di uguaglianza, di equità e di gratuità.

I problemi sono sotto gli occhi di tutti: Liste d’attesa sempre più lunghe anche per accedere a servizi essenziali ed urgenti; carenza di infermieri e di medici di famiglia, del pronto soccorso, di diverse branche specialistiche, ospedalieri; organizzazione generale attuale del sistema delle cure primarie ormai inadeguata alle mutate esigenze della popolazione; conseguente obbligato ricorso di una fetta sempre maggiore della popolazione a prestazioni a pagamento; progressiva espansione della sanità privata, co-finanziata dalla fiscalità generale ma in concorrenza e a danno della sanità pubblica; rinuncia alle cure di moltissimi cittadini che non sono più in grado di sostenerne i costi; carenza di servizi per la salute mentale, di consultori familiari, di supporti per giovani e adolescenti sia per aspetti sanitari che per situazioni di disagio; carenza e inadeguatezza dei servizi di assistenza domiciliare; aumento delle diseguaglianze e delle fragilità.

Sanità e salute: molte proposte, ma poche iniziative unitarie. Numerose realtà si sono espresse sull’argomento: gruppi di operatori, ricercatori, scienziati, cittadini; società scientifiche; ordini professionali; organizzazioni sindacali; associazioni di malati e cittadini; giornalisti; persino la Corte dei Conti. Ma sono voci che si mobilitano in maniera separata, facendo spesso prevalere la visione delle rispettive identità a discapito di un interesse comune, dei cittadini in primo luogo. Ne consegue la scarsa capacità di incidere sui processi, di condizionare le scelte politiche e di invertire il declino del SSN. Ne consegue il potere quasi nullo di evocare risposte conseguenti da parte dei decisori politici.

Fare rete e costruire proposte condivise: I presenti hanno convenuto invece necessario ed urgente unire queste voci e realtà. Molte proposte che esse esprimono sono convergenti. La gravità della crisi in cui versa il SSN impone di individuare e valorizzare gli elementi comuni e di avviare un percorso unitario che porti alla condivisione, tra tutte le diverse componenti delle medesime proposte. La difesa e la riorganizzazione per un moderno SSN accomuna tutti, si rende pertanto opportuno avviare un percorso per “connettere e coalizzare” le diverse realtà.

Un percorso condiviso: Sulla base di queste premesse, i partecipanti all’incontro hanno deciso di avviare un percorso collaborativo con l’obiettivo di connettere e coalizzare le risorse interessate e disponibili ad impegnarsi per la difesa, ripensamento e rilancio del SSN e giungere a proposte unitarie e condivise, da porre ai decisori politici, con la forza che queste acquisirebbero dall’unità delle tante voci.

Le azioni e scadenze individuate:
Attivare l’indirizzo e-mail il.ssn@gmail.com per corrispondenza e adesioni;
Una riunione via web il 25 settembre ore 18,00, per approfondire le convergenze sui contenuti del documento inizialmente proposto “Connettere e coalizzare le risorse per rilanciare il SSN”;
Organizzazione di incontri pubblici di confronto -a Milano, a Roma e Bari- allargati alla platea più ampia possibile di Istituzioni, Organizzazioni professionali e sindacali, Società scientifiche, Associazioni di operatori sanitari, sociali, malati e cittadini.

[1] Aderiscono alla Alleanza per la Riforma delle Cure Primarie in ItaliaCampagna Primary Health Care Now or Never; ACLI - Associazioni Cristiane Lavoratori Italiani; AICP - Accademia Italiana Cure Primarie; AsIQuAS - Associazione Italiana per la Qualità della Assistenza Sanitaria e Sociale ETS; AIFeC – Associazione Infermieri di Famiglia e di Comunità; Associazione APRIRE – Assistenza Primaria In Rete; Associazione Comunità Solidale Parma; Associazione La Bottega del Possibile; Associazione Prima la Comunità; Associazione Salute Diritto Fondamentale; Associazione Salute Internazionale; CARD - Confederazione delle Associazioni Regionali di Distretto; Comitato Promuovere Case della Comunità a Parma e Provincia; EURIPA Italia - European Rural and Isolated Practitioners Association; Istituto di Ricerche Farmacologiche Mario Negri – IRCCS; Movimento Giotto; Movimento MMG per la Dirigenza; SItI - Società Italiana di Igiene, Medicina Preventiva e Sanità Pubblica; Slow Medicine ETS.

13 settembre 2024
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La narrazione favoleggiante sulle Case di Comunità

29 APR - Gentile Direttore,
sul tema “comunità”, che per estensione potrebbe inglobare anche il termine “Case della Comunità”, sembra proprio che Bauman e altri pensatori insieme a lui (Zamagni, Cavicchi, Benasayag, Byung-Chul Hann, Benanti, Floridi, Mortari, Morin…) abbiano scritto inutilmente le loro opere. Se le varie forme di “comunità” si sono liquefatte sotto i colpi della globalizzazione, dovrebbe apparire paradossale, una vera contraddizione in termini, imporre, oggi, per normativa, strutture edilizie in conto capitale definite “Case della Comunità” (CdC). Forse sarebbe stato più lineare continuare a definirle “Case della Salute” (CdS).

La vulgata che le CdC siano una innovazione nei confronti delle CdS in quanto nelle CdC verrebbero inseriti, in modo tutt’ora incomprensibile, il terzo settore e il sociale non corrisponde al vero: basta leggere i documenti riferibili alle CdS (2010) ed eseguire una banale ricerca per parole chiave. Così come potrebbe essere sorprendente scoprire che i temi dell’ambiente e del contesto (oggi è di tendenza il temine “one health”) sono già ricompresi addirittura nella legge 833 del 1978. 

La narrazione favoleggiante sulle CdC è quindi triste ed infelice dall’inizio, manca di trasparenza, è informativamente asimmetrica. Non risolverà i gravi problemi che discriminano assistiti e professionisti in quanto differenziati nella fruizione dei servizi. Pare ancora una volta che la visione individualistica e consumistica aziendale abbia il sopravvento e manifesti l’incapacità di sperimentare nuovi assetti comunitari immersi nella molteplicità della complessità e che rifiutano la gerarchizzazione proprio perché gli assistiti ed i professionisti non sono riducibili ad una rigida dimensione.

In ogni caso l’istinto ontologico volto a creare piccole comunità potrebbe trovare, in ambito sanitario, un estremo appiglio proprio nella relazione fiduciaria (rito collettivo?) che contiene in sé aspetti pattizi ed etici.

Le situazioni di commissariamento e sub-commissariamento che perdurano, anche in realtà unanimemente considerate modelli per il paese, non aiutano né a cogliere il significato di siffatte precarietà gestionali/organizzative né a limitare le problematiche che tendono a deteriorarsi di mese in mese. Il caos non permette mai di conoscere una strada da seguire ma abbandona le persone e i professionisti di buona volontà ad un orizzonte impenetrabile.

E’ commovente come, ancora una volta, nelle regioni dove le Ausl si reputano, in modo autoreferenziale, le più avanzate, siano state organizzate, dalle Aziende Sanitarie insieme alle Amministrazioni Comunali, all’Università e ad alcune Associazioni estranee ai territori di interesse, percorsi formativi per i soggetti che direttamente o indirettamente dovranno, secondo gli intenti, popolare le CdC. I percorsi dovrebbero servire ad accompagnare la così detta “partecipazione dal basso”. Fotocopia di quanto è già capitato all’inizio della stagione consociativista per le Case della Salute con i risultati che sono di fronte agli occhi di tutti.

Secondo la letteratura, l’attività di condivisione delle scelte sanitarie pubbliche che interessano i cittadini di un quartiere dovrebbero seguire le regole della co-operazione e riguardare l’intero processo decisionale. Significa che bisognerebbe partire insieme, allineati e parificati, nel rispetto delle specificità non gerarchiche ma curriculari. Il primo step è quello dell’ideazione. Poi si passa alla progettazione, di seguito alla realizzazione per poi terminare con la sperimentazione e la stabilizzazione. Il compendio è dato dalla rendicontazione rivolta ad es.: alla popolazione di un quartiere da parte dei professionisti fiduciari di riferimento che sovraintendono l’intero processo. Quando invece le istituzioni sovraordinate (es.: DM77, Metaprogetto, Regione, Ausl, Amministrazioni locali, Associazioni nazionali…) cercano di convincere i diretti interessati “ad integrarsi” alla fine del processo, cioè dalla coda, allora la trasparenza fa difetto e si crea quella che si definisce una asimmetria informativa. Ed è qui che casca l’asino.

Desta oltremodo meraviglia che le istituzioni (e di conseguenza i processi di formazione da loro attivati) non siano nemmeno in grado di conoscere e di valorizzare esperienze che negli anni si sono dispiegate sotto il loro naso. Oltre alla cronicità e alle fragilità esistono anche persone della 3° e 4° età ancora in buona salute che avrebbero un grande vantaggio nel poter usufruire di servizi sociosanitari completi in una struttura di quartiere raggiungibile in 15 minuti dalla propria abitazione. Si dovrebbe considerare che numerosi pensionati e anziani, ormai mediamente alfabetizzati in ambito sanitario se non addirittura intellettuali del settore, sono in grado di avvalorare ancor di più la stratificazione generazionale professionale, i quartieri e il volontariato. Soprattutto non gradiscono essere considerati manovali prestazionali finalizzati all’efficientamento di disservizi di competenza pubblica.

Le notevoli risorse utilizzate per dare vita a Comitati di Indirizzo, Gruppi di Progetto, Patti Sociali, Percorsi Formativi hanno ignorato il contesto specifico, hanno coinvolto associazioni esterne ai quartieri o ingaggiato soggetti privi di curriculum coerente. Si è arrivati perfino a sostenere modelli amazzonici (sic!) per i “nostri” territori.

Dalla stagione delle “Case della Salute” ciò che non è mai stato effettivamente risolto è la necessaria parità di risorse di partenza per cittadini e professionisti (strutturali, organizzative, gestionali ed economiche). Molti pazienti, di fatto ma non di diritto, e i loro professionisti sono quindi diventati, da numerosi anni, di serie B. Tuttavia, i mmg, ancora punti di riferimento per una popolazione, anche se discriminati, tentano di risolvere i bisogni dei loro assistiti nel miglior modo possibile. Non si può però pretendere da questi medici più di quello che fanno anche perché, se il SSN sta ancora in piedi, molto è dovuto al loro silenzioso e quotidiano lavoro di prossimità. Il pensiero unico, che si auto assolve sempre da ogni responsabilità, non si è mai interessato fattivamente delle competenze delle piccole comunità forse irritato da una loro, ormai esigua, autonomia (che verrebbe eliminata completamente dalla dipendenza). Spesso ne hanno ostacolato l’operatività tanto che, nelle inevitabili difficoltà, prontamente puntano il dito su un presunto insufficiente volontarismo di professionisti e cittadini.

Bruno Agnetti
Centro Studi Programmazione Sanitaria (CSPS) di Comunità Solidale Parma ODV

29 aprile 2024
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Medicina Territoriale

La professione medica è ancora in grado di riprendere in mano il proprio destino

Gentile Direttore,

ancora una volta Ivan Cavicchi con il suo nuovo instant book (Medico vs cittadini, un conflitto da risolvere, Castelvecchi, 2024) ha regalato una profonda riflessione che parte dalla controversia della “colpa professionale medica” ed arriva ad affrontare un tema filosofico, etico, sociale semplicemente enorme.

Il professore e collega ha pensato di giocare d’anticipo senza aspettare la conclusione dei lavori della Commissione d’Ippolito costituita, ad hoc, dal Ministero di Giustizia con l’obiettivo di segnalare possibili errori e contraddizioni che potrebbero, se non rivisti, rendere la categoria e i cittadini “prigionieri di leggi sbagliate” difficilmente poi modificabili.

Già il titolo del libro pone un tema etico complesso: tutti i medici sono cittadini ma non tutti i cittadini sono medici: in una situazione di questo tipo chi riveste un ruolo sociale e professionale particolare? Come si può costruire o formare, oggi, una relazione pattizia medici e cittadini? Chi può svolgere la funzione educativa/pedagogica e quella di testimone del “contratto sociale”? Chi riconosce chi? Come può essere costruito un adeguato e contestuale rispetto reciproco?

Sono quindi in gioco “un mondo” di valori essenziali. Sia sufficiente, in questa sede, pensare a cosa capita quotidianamente nella realtà assistenziale: nelle cure palliative portate al letto del malato, al suo domicilio dal mmg che, proprio per il contratto sociale “immateriale”, l’assistito “elegge” come giusto, libero, veritiero, valido e in grado di assisterlo negli ultimi momenti. La situazione è incommensurabilmente diversa da un banale contratto d’opera, se non altro, perché si ha a che fare con il mistero della vita e della sua conclusione. Ha poca importanza, alla fine, la tecnologia o le altre competenze scientifiche. Ciò che è veramente richiesto è una avvolgente abilità relazionale (infatti il mmg è considerato il palliativista di riferimento per il proprio assistito).

Forse una attualizzazione degli storici criteri relativi alla “colpa” professionale (imperizia, imprudenza, negligenza) potrebbero essere più che sufficienti per poter archiviare o attivare le sanzioni, in tempi brevissimi. L’errore umano è sempre possibile a fronte di una realtà ancora sconosciuta nella sua essenza (la vita), che alcuni considerano sacra, e forse è anche corretto che chi deve prendere decisioni tenga conto di questo aspetto.

Non è compito della Commissione Ministeriale indicare le strategie per ridurre la conflittualità però, la stessa Commissione, potrebbe avventurarsi in qualche sapiente suggerimento. Se la problematica di fondo è la formazione generale dei professionisti affinché siano in grado di leggere le modifiche sociali e di ridurre di conseguenza i contrasti, quante cose devono cambiare per impostare ciò che sarebbe necessario? Che valore culturale e di maturazione professionale possono apprendere gli studenti di medicina sottoposti, per gli esami, a test scritti pieni di trucchetti e tranelli più che di una vera valutazione della maturità professionale in crescita? Che rapporto possono avere i futuri medici con il sociale o con il sapere se tutto viene ridotto ad un perfido e narcisistico superenalotto?

Siamo certi che non siano ormai fondamentali, durante il corso di laurea, più esami di psicologia, filosofia, etica, sociologia, antropologia, accorpando eventualmente, qualche esame che tende a ripetere ciò che è appena stato fatto al liceo?

Anche le istituzioni locali e regionali, seguite pedissequamente dai loro accoliti, hanno palesato una incapacità culturale assordante. E’ stato fatto di tutto per fare sprofondare la professione così che il rapporto professione-cittadini è diventato di fatto inagibile.

Il riconoscimento reciproco (patto sociale) resta fondamentale se i due “giocatori” in campo (medici e cittadini), non vogliono perdere.

Il tempo che stiamo vivendo potrebbe essere sintetizzato da alcune parole chiave: modernismo, postmodernismo (quarta rivoluzione), trans-umanesimo, post-umanesimo, consumismo, globalizzazione, neoliberalismo. Una bella complessità. Nemmeno il Covid è riuscito a stimolare pratiche di cambiamento radicale. In ogni caso i movimenti filosofici citati e l’inarrestabile avanzamento tecnologico obbligherà la professione a profonde modificazioni che la regressività di DM77, ACN, Regioni e Aziende non sono nemmeno in grado di immaginare (“cinismo dell’incapacità”). La “quarta rivoluzione” se non sarà gestita con intelligenza ed umanità darà valore non tanto ai professionisti ma ai contratti d’opera, ai formulari, alle procedure, agli algoritmi prescrittivi, ai nomenclatori, ai tariffari… ma dove sarà il medico amico sincero e disinteressato nei momenti importanti della vita? Alcune teorizzazioni del post umanesimo ipotizzano la definitiva scomparsa dei dualismi così che in un mondo di cyborg non ci sarà più posto (bisogno) per medici e cittadini e nemmeno per l’umanità.

La medicina generale può ancora diventare un valido strumento per ridurre la conflittualità sociale in ambito sanitario. Infatti nelle piccole comunità, ancora oggi, riesce a dare un senso alle cose fondando l’agire professionale sul contratto sociale “olistico". La scelta fiduciaria favorisce una azione educativa e formativa che permette di far fronte al dott. Google, ai robot, ai totem, all’assalto dei “malatisti” esperti in scorciatoie per il PS e per la specialistica/diagnostica.

Anni di discredito da parte delle aziende e delle regioni nei confronti delle competenze diagnostiche, terapeutiche, riabilitative dei mmg non poteva che portare tutti al punto in cui ci si trova. Il relativismo e l’economicismo hanno desertificato l’ambito dei valori ma il medico, se vuole, ha la sensibilità per ritornare a riconoscere il dolore umano (e il proprio) e ad ascoltare la sofferenza (che è l’elaborazione mentale del dolore). Questo anche se la società è imbibita di ansia, non riesce più a rallentare, l’amigdala è iperfunzionante mentre la corteccia prefrontale, razionale, è inibita. Le persone non sono più abituate ad affrontare certi temi che la tradizione aveva comunque inserito e mantenuto anche nel periodo della modernità e della postmodernità (il fine vita, la malattia, il dolore, la sofferenza, l’ansia). Il medico è ancora in grado di riprendere in mano il proprio destino e quello della professione perché la cura e il prendersi cura non rientrano solo nei diritti politici ma è l’espressione di una questione ontologica (medicina scienza coraggiosa e impareggiabile).

Bruno Agnetti

Centro Studi Programmazione Sanitaria (CSPS) di Comunità Solidale Parma ODV

06 marzo 2024

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Medicina Territoriale

Il mmg e gli assistiti sono “fondi disponibili”?

Gentile direttore,
Milena Gabanelli (Dataroom del 22 gennaio 2024 su La7) ha presentato un quadro del SSN disarmante. Non è che non si sapesse che il re fosse nudo. L’imbarazzo deriva dal fatto che l’insieme delle informative fa apparire la questione ancor più irrimediabile di quanto previsto dimostrando vieppiù che “il difetto sta nel manico”.

Numerosi sono i dubbi che emergono: è noto che le agenzie nazionali e regionali, attrezzate di tutti i tecnici possibili ed immaginabili, sono state create a suo tempo per aiutare le regioni (e le aziende) a gestire l’aspetto amministrativo. Perché quindi si continua ad esternalizzare ai big della consulenza globale la problematica economica/finanziaria delegandoli addirittura ad analizzare i dati sanitari dei pazienti e di conseguenza a sovraintendere la politica sanitaria?

La stagione delle consulenze esterne in sanità non è mai terminata ma da qualche tempo c’è un boom delle assistenze contabili/monetarie che portano soggetti terzi ad operare su una mole enorme di dati sanitari dal valore inestimabile ma analizzati con l’angolo visuale “consulenziale” o di mercato (es.: strategie di appropriatezza farmacologico/prescrittiva). “Se fai entrare soggetti privati nel cuore del sistema sanitario nazionale per sfornarti il pacchetto completo e a te, pubblica amministrazione, non rimane nemmeno il Know how, a cosa servono i direttori generali, i funzionari, i dirigenti nazionali, regionali e locali?”.

Chi redige poi materialmente i documenti ufficiali che divulgano a professionisti e a cittadini il posizionamento politico sanitario (es.: Accordi Collettivi Nazionali e Regionali, i DM)? Perché questi documenti sono scritti così male che richiedono spesso chiarimenti interpretativi “autentici” ex-post come ricordava già nel 2012 un documento della stessa Sisac?

In questa situazione come è possibile che le recenti ipotesi di riordino delle cure primarie siano libere da pressioni esterne? Le istituzioni sanitarie hanno le competenze culturali, autonome, per riuscire a disegnare insieme ai professionisti e agli assistiti strategie coerenti con l’evoluzione sociale?

Sembra che l’unico archetipo continui ad essere, inossidabile, quello economicistico/finanziario, considerato emancipativo ma in grado, anche, di creare un deserto etico dietro di lui.

Infatti l’antinomismo della medicina amministrata produce per assurdo un nuovo “consumismo” per la verità non attribuibile ai comportamenti delle persone/assistiti ma procurato dalla stessa struttura istituzionale che sempre di più considera i professionisti e i cittadini “fondi disponibili” da utilizzare e da mettere a rendita in conformità dell’idea di uno “sviluppo sostenibile”. Se non si assume il modello di “compossibilità” in grado di ricercare, in un sistema complesso come è la sanità e ancor di più la salute, il minor grado di contraddittorietà possibile nella relazione politica/salute/sanità/economia è inevitabile che il concetto di “sviluppo sostenibile” diventi un ossimoro.

Alcuni modelli/movimenti organizzativi territoriali esotici che vanno per la maggiore e quelli che ipotizzano mmg dirigenti/dipendenti potrebbero apparire in prima battuta come una miglioria ma potrebbero nascondere le premesse per un nuovo “consumismo” in quanto le normative attuali permetterebbero, in caso di necessità, una distribuzione dei professionisti su tutta l’area della AUSL/Provincia riproponendo così il disegno di una disponibilità utilizzabile da mettere a profitto delle aziende ( es.: in situazioni di carenza di servizi di base territoriali per mmg di AP o per mmg di CA).

Eppure la professione del mmg ha ancora qualche cosa di “incommensurabile” per le comunità di riferimento. Il medico è un intellettuale che per sua natura non può essere a implementazioni illimitate o a processi che tendono a svalutare la natura sociale e comunitaria del suo operare (e del suo pensare). Le alte dirigenze, racchiuse nel pensiero unico, non ce la fanno ad uscire da una visione di potere amministrativo/finanziario. Anzi le normative incrementano la medicina amministrata e ci si muove con difficoltà all’interno del basilare paradigma bio-psico-sociale da cui dovrebbero derivare norme e modelli etici e veritieri.

Che ci sia un problema strutturale nella nostra sanità è evidente. Pare vi sia una continua emergenza che però secondo alcuni pensatori diventerebbe una strategia governamentale che pota ad accettare l’inaccettabile (M. Foucault 1978; M.Friedman Nobel per l’economia nel 1976). Attualmente irricevibile sarebbe la riorganizzazione territoriale descritta da DM 77 che verrà ulteriormente gestita dagli accordi regionali e locali. L’elemento che accomuna molti aspetti della crisi sanitaria attuale è una mancanza di fiducia diffusa tra assessorati e aziende da una parte e professionisti, cittadini dall’altra a causa dell’imperante cultura finanziaria. “Oggi si parla in ogni dove di community, ma la community è solo una forma mercificata di comunità” (Byung-Chul Han, 2023). Per aspirare alla verità, anche in merito di salute strettamente collegate ad una cultura di comportamenti e stili di vita opportuni, è necessaria una radicale riforma che preveda un riscatto delle periferie indicando, per gli affollati assessorati e aziende, un posizionamento tipo authority valoriale.

Se la professione viene narrata o descritta come prestazione quantitativa o come attività lavorativa numerica, (essendo non completamente dimensionabile o afferrabile), non riuscirà a sfuggire dallo sfruttamento. Il consumismo istituzionalizzato riesce a strumentalizzare anche l’anelito di salute (spesso identificata dalle persone “solo” come guarigione o risoluzione dei problemi). La relazione di cura, lontano da tentazioni consumistiche, tenta invece di ricercare, insieme, la più percorribile omeostasi qualitativa per quel momento specifico pur riconoscendo di operare in un universo di incertezza e imprevedibilità. Certamente la missione principale del mmg non è quello di fare da filtro per i PS (Wonca 2012-2023).


La pedanteria che a nulla porta

20 GIU - Gentile Direttore,
il solco (…ed ecco quello che scriverei, QS, 12 giugno 2023) ancora una volta dimensiona la distanza siderale che si va accumulando tra coloro che tentano di sviluppare una analisi razionale sulla Sanità/Salute (SSNP) e quelli che si adeguano in qualche modo al debolissimo pensiero unico. Il tema gira intorno alla questione della “sanità” identificato come un “potere” piuttosto che un diritto o un servizio o un bisogno o una entità ontologica (le aziende, le mega aziende, l’aziendalizzazione, i distretti, le sovrastrutture della medicina amministrata non hanno più senso e per questo vanno superate prevedendo Autority nazionali, consorzi locali, autonomie completamente pubbliche nell’assistenza primaria non ancora colonizzata).

Pare che la fatica di divulgare pensieri razionali non porti ad una maggiore diffusa saggezza in quanto il rumore degli annunci autoreferenziali è così assordante e supponente che disintegra nella polvere ogni onesto e pacato tentativo di riflessione approfondita (rivolta al bene comune e alla fruibilità piena dei servizi che corrisponde al godimento dei diritti in una territorialità che sia effettivamente comunitaria).

La prassi pluridecennale della cosiddetta “privatizzazione della sanità” alimenta la sua origine culturale proprio all’interno delle istituzioni pubbliche. Infatti molti ex alti dirigenti sanitari o assessori o “pezzi grossi” della galassia amministrativa sanitaria, una volta terminato il mandato, si sono dedicati al management sanitario privato spesso raggiungendo posizioni da “top manager”.

Paradossalmente si assiste ad un modello biologico entropico in quanto all’interno delle normative c’è già, nascosto, il messaggio genetico che distruggerà lo stesso ente che le direttive asseriscono di sottrarre alla morte.

Queste contraddizioni inevitabilmente diventano poi discriminazioni che coinvolgono professionisti, assistiti, l’assistenza, la prossimità. Esse galleggiano, quasi invisibili, in periferia dove vengono sperimentate sottotraccia. In un secondo tempo la situazione viene formalizzata, normata, deliberata. Lentamente e impercettibilmente, come una chiazza di petrolio contaminato, dai sobborghi arriva infine ai convincimenti centralizzati monologici o alle agenzie che scrivono i testi “obbligando” alla lettura noiosa e pedante priva di slanci e visioni.

Un esempio tra i tantissimi possibili. A microfoni spenti, tutt’oggi, vi sono amministratori che confermano l’inutilità della maggior parte del programma del PNRR che riguarda la materia delle Case della Comunità e il costrutto collegato… in quanto completamente inadeguate alle necessità del contesto. Si caldeggia comunque il piano al fine di non perdere i finanziamenti dedicati. Nascono quindi come l’erba quando piove commissioni, tavoli, regie, coordinamenti, relazioni che a causa del punto di partenza non possono che generare nebbia cognitiva.

Gli amministratori di cui sopra attribuiscono comunque le scelte o le decisioni sbagliate alla governance precedente. Di questo flusso di accadimenti i professionisti della prima linea (troppo impegnati a tentare di prendersi cura delle liste d’attesa attingendo quando necessario a strutture private) e i cittadini non sanno nulla. Chi dovesse azzardare suggerimenti o alternative costruttive verrebbe bollato come uno “scappato di casa” che si è svegliato male la mattina.
Sono rappresentazioni mentali disarmanti ma conformate al pensiero unico.

È un pensiero che non andrà lontano. Le contraddizioni si scateneranno tutte insieme (nelle cure primarie) anche se i manoscritti delle associazioni culturali vogliono rappresentare un futuro vantaggioso. Per chi? Cui prodest? Questi elaborati palesano qualche cosa che somiglia molto ad un “sofismo contemporaneo” indifferente all’essenza e che appare come un “sapere” orientato esclusivamente al mantenimento dello status quo. Covid, guerra, inflazione, incremento della povertà, disagio sociale tutto dimenticato in un attimo. Se non c’è passato non può nemmeno esserci una visione futura.
C’è solo un afoso presente affastellato di nuovi acronimi irrazionali che popolano i documenti ufficiali e le elaborazioni delle associazioni culturali del settore.

È probabile che sia stato raggiunto un limite. Non sono individuabili naturalmente i diretti responsabili salvo non si voglia incolpare di tutto il maggiordomo (governance pregresse).
Ma è proprio necessario condividere il DM77, il Meta Progetto o i pedanti “spiegoni” autoreferenziali diffusi in tutto lo stivale?
Anche la Legge Balduzzi era una legge … che non è mai stata applicata… con il DM77 si è improvvisamente scoperto che la L.Balduzzi aveva, nascosta, la data di scadenza.
Chi ha scritto questi articolati? Quali sono le cause (spiegazioni) di tutto ciò? Senza una causa tutto resta un’opinione apparente e crea un sapere per sua natura instabile apparentemente affabile.

C’è chi propone addirittura modelli esotici come se non esistessero esperienze locali sorprendenti e concrete, con un passato e una visione futura. Non sempre dimensionabili statisticamente. Non inserite in ricerche bibliografiche accademiche o internazionali (essendo locali e periferiche). Non rigorosi nel seguire protocolli o linee guida. Privi anche del conforto della Medicina Basata sulle Evidenze.

Eppure i loro pazienti curati professionalmente e amorevolmente per Covid nel periodo pandemico non sono morti. C’è una verità assoluta nell’esperienza umana del condividere il senso di finitezza che dà al medico e al “suo” paziente una consapevolezza che non ha bisogno che la “centralità del paziente” sia artatamente enunciata (a favore della medicina amministrata che, da quello che si legge su QS, “dipendenza dei medici di famiglia” secondo il Piano del Ministero della Salute…, ha vinto!).

Bruno Agnetti
Centro Studi Programmazione Sanitaria (CSPS) di Comunità Solidale Parma

20 giugno 2023
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Sanità pubblica addio? Agnetti: “Come possiamo evitare di arrivare al punto di non ritorno?”

La sanità privata è ormai un sistema molto potente in tutte le regioni ed in tutte le provincie. E’ molto complesso pensare ad una sua revisione radicale. Sarebbe come affrontare le problematiche sorte con il finanziamento pubblico della Fiat ad iniziare dagli anni ’70 aggravato da fatto che, oggi, gli occupati nella così detta sanità privata sono molto superiori al numero dei dipendenti della Fiat e la diffusione logistica del privato è capillare in tutto il paese.

Molti colleghi erano lì, nei primi anni 80, quando la riforma sanitaria ( 833 del 23 dicembre 1978) iniziava il suo iter applicativo. Da allora si è passati dall’iniziale entusiasmo al disincanto rassegnato tanto che pensare a qualche cambiamento può apparire addirittura velleitario. Gli storici sanitari “boomer” sono passati dall’essere clinici attivi ed operativi a utenti se non pazienti. Mantengono tuttavia un patrimonio di conoscenze che li rende esperti perché “conoscitori dei fatti accaduti” sia nell’ambito dei professionisti delle cure che nell’area variegata degli assistiti.

Durante questo tribolato periodo numerosi medici e operatori sono stati quasi presi per mano dalle numerose pubblicazioni del Prof. Ivan Cavicchi che hanno così favorito formazione e approfondimenti in merito ai temi più critici della politica sanitaria italiana.

L’ultima fatica del Prof. Ivan Cavicchi ha nel titolo (Sanità Pubblica Addio) un termine definitivo, “addio” appunto.

Il sottotitolo riporta però una frase che tenta di individuare “la causa prima” che ha provocato la sconfortante rottura: il cinismo delle incapacità. A leggere il testo questa incapacità pare poter essere associabile ad una profonda ignoranza, soprattutto da parte dei decisori, sui fondamentali di una disciplina molto complessa come la medicina.

Nella controcopertina riemerge comunque lo spirito indomito del Prof. Cavicchi quando sostiene: “non è vero che sia impossibile o inconcepibile una sanità che funzioni, adeguata ai bisogni delle persone, giusta”.

L’analisi inesorabile e a tutto campo presentata nel testo del Prof. Cavicchi è già più che bastevole. Sono state lette su QdS ulteriori riflessioni e studi generali colti e minuziosi. E’ superfluo quindi esporre altre considerazioni complessive affidando quindi questo compito ad una sola immagine.

Spesa sanitaria pubbica in rapporto al PIL

In considerazione della esperienza accumulata nel tempo si farà soprattutto riferimento al capitolo 14 del libro del Prof. Cavicchi: Medicina Generale.

In effetti il Centro Studi Programmazione Sanitaria (CSPS) di cui il sottoscritto fa parte, si è dedicato, in questi anni, allo studio “operativo” e “di base” di quanto la Politica Sanitaria ha prodotto in merito all’organizzazione sanitaria territoriale (ACN, AIR, DM77, Metaprogetto, PNRR, delibere, intese, documentazioni, iniziative o coordinamenti ecc.).

L’attività della Medicina Generale, più correttamente, l’operatività dell’insieme degli attori che agiscono sulla scena delle Cure Primarie si svolge per la gran parte in modalità ”periferica” e di conseguenza sviluppa una cultura specifica di “confine” in quanto, a questo livello, avviene il contatto diretto con le persone, le loro peculiarità ed i loro bisogni espressi e non espressi. In questo ambito le richieste bio-psico-sociali sono molto forti.

Tuttavia è proprio a livello del territorio che si potrebbero intravedere interessanti spinte riformiste foriere di una nuova cultura sanitaria assistenziale, originale e specifica, spesso spontanea, che potrebbe affondare le proprie radici nelle integrazioni (co-operazioni) tra operatori professionali e cittadini (https://youtu.be/KtDb05WbtFI).

Il nuovo clima intellettuale riformista che originerebbe nel perimetro delle cure primarie sarebbe in grado di misurarsi con sistemi complessi rappresentati dal contesto (bisogni delle persone ed esigenze degli operatori). Si formerebbero così modelli di leadership riconosciuti che si pongono come punto di riferimento e di servizio per l’intera comunità di appartenenza.

La leadership di comunità si distinguerebbe non solo per la mancanza di strutture gerarchiche, per la flessibilità verso forme collettive o collegiali del modello, per la trasparenza e la capacità di mettersi in gioco; per la gestione serena della responsabilità condivisa; per il ruolo di testimonianza; per la valorizzazione della meritorietà ( criterio del merito) al posto della tanto decantata meritocrazia ( governo della meritocrazia), per la totale gratuità.

A tutt’oggi la “libera scelta” che caratterizza in modo unico la medicina generale e il medico di base (finché questo istituto verrà mantenuto) rappresenta una legittimazione quasi politica (non partitica) che facilità la co-operazione e la co-responsabilità tra sanitari e cittadini. Il prof. Cavicchi, nel suo scritto, liquida definitivamente il tema della dipendenza del mmg (“stupidaggine”).

Questa cultura riformista che da tempo si sta sviluppando silenziosamente a livello territoriale, resta sempre una constatazione inaspettata da parte delle Alte Dirigenze regionali e locali in quanto spesso la loro efficacia non coincide con i protocolli o con le normative istituzionali e le esigenze amministrative/economiche di controllo. Si tende quindi a scotomizzarla o riassorbirla in complicati sistemi burocratici che ne soffocano l’originalità innovativa.

Al chiacchiericcio che recentemente è nato intorno al PNRR (missione 6), alle Case della Comunità e agli Ospedali di Comunità partecipano troppi soggetti autoreferenziali (“che di base non hanno niente”). Non si considerano le esperienze che non siano perfettamente allineate ma si sommano stucchevoli esposizioni che poco hanno a che fare con gli operatori che svolgono la loro attività quotidianamente in prima linea. Nessuna iniziativa e nessun coordinamento è riuscito ancora a eguagliare quella “vera riforma” delle cure primarie rappresentata dalla storica delibera della Regione Emilia-Romagna sulle Case della Salute (GPG/2010/228) con la quale si normava la realizzazione di queste strutture.

La reale azione riformatrice riguardava solo la così detta casa della salute “Grande” in quanto ipotizzava la creazione in ogni quartiere o in ogni territorio di un complesso logistico-architettonico che potesse offrire un “contenuto” in grado di mettere a disposizione di una comunità l’intera gamma dei servizi territoriali sanitari, sociali, assistenziali, riabilitativi, di strutture intermedie, di assistenza diurna, di integrazione tra operatori e terzo settore.

Un reale servizio per i cittadini che avrebbe garantito anche la prossimità, la domiciliarità e la continuità delle cure. Le normative, i coordinamenti e le iniziative che si stanno muovendo intorno alla questione del PNRR sanitario restano tutt’ora una “mistificazione” che “non hanno niente a che fare con la comunità” (termine ormai inflazionato) e sono funzionali solo ad un ruolo prefettizio dei distretti che grazie alla narrazione collegata al PNRR tentano di recuperare una competenza da tempo evaporata.

Il fallimento dell’esperienza Case della Salute non è da attribuire a questioni economiche ma piuttosto al mancato coraggio di portare fino in fondo quel progetto che avrebbe potuto dare forma a quel clima intellettuale e culturale territoriale innovativo ed autonomo già ricordato ma poco controllabile a livello istituzionale.

Da questo punto di vista può essere molto istruttivo analizzare la Delibera GPG/2016/2253 della Regione Emilia-Romagna dove, probabilmente, può essere evidenziato un esempio plastico di contro-riforma estremamente contorto che nella pratica ha bloccato ogni possibile evoluzione innovativa delle Case della Salute “Grandi”.

L’esito negativo di questa stagione ha lasciato dietro sé profonde cicatrici individuabili in una aumentata sfiducia degli operatori nei confronti delle istituzioni e in un incremento delle differenziazioni (eufemismo) professionali ed assistenziali. Anche i recenti documenti che vanno per la maggiore dimostrano una intricata “assenza di pensiero”, la mancata semplificazione che offusca la trasparenza, un serpeggiante contro-riformismo, una evidente inapplicabilità delle norme operative (“il mmg segato in due per fare due mezzi medici”), soprattutto l’incapacità di comparazione con altri concetti e altre esperienze palesata dalla numerosa produzione “potestativa” di normative cogenti. (https://www.brunoagnetti.it/2022/05/17/cosa-fa-oggi-e-cosa-dovrebbe-fare-oggi-e-domani-il-medico-di-medicina-generale/ ).

Già nel lontano 27 giugno 2012 la stessa SISAC (Struttura Interregionale Sanitari Convenzionati ) evidenziava alcune criticità evidenziate nella stesura dei documenti ufficiali dove si confondono periodi temporali; difficoltà nella comprensione delle disposizioni; farraginosità, contraddittorietà, ambiguità… ma da allora a tutt’oggi non sembra che siano cambiate le cose.

Anche il fenomeno delle liste d’attesa e la regolamentazione amministrativa delle priorità (UBDP) desta qualche criticità e probabilmente deriva da una mancanza di fiducia istituzionale nei confronti dei professionisti. Un collega medico di base ha raccontato il seguente episodio: nel mese di gennaio 2023 ha diagnosticato ad un assistito occasionalmente una severa Insufficienza renale ( in relazione ai dati di laboratorio). Ha immediatamente provveduto a impostare una terapia adeguata associata a dieta e ad attività fisica.

Contestualmente ha provveduto personalmente, in considerazione del caso clinico, a prenotare una visita specialistica nefrologica urgente. L’appuntamento nel pubblico necessario anche per ufficializzare l’E.T. e poter ricevere i prodotti alimentari aproteici è stato fissato per metà maggio del 2023. Le liste d’attesa rappresentano la prima barriera all’accesso alle cure (quasi 4 milioni di cittadini hanno rinunciato alle cure nel 2022 e ancora nel 2023 pare che circa 2 milioni di persone siano senza medico di base).

Modelli e idee alternative per una vera riforma radicale delle Cure Primarie ve ne sono molte e lo stesso Prof. Cavicchi ne sintetizza alcune tra queste ( terza via):

- coerenza con i “valori” di riferimento ( è possibile elencarne alcuni: non maleficità, beneficienza, giustizia, autonomia, equità, qualità, trasparenza, sostenibilità, trasmissibilità, complessità, co-operazione, co-responsabilità collegiale…)

- “abolizione delle aziende” (invece che accorparle in mega-aziende) e ritornando ai consorzi per governare meglio la complessità dei malati spendendo molto meno.

- “modificazione del sistema retributivo” degli operatori puntando su gli esisti. Il sistema del governo clinico dovrebbe essere completamente scollegato da sistemi amministrativi/burocratici/economicistici; gli obiettivi verrebbero scelti, in accordo con le esigenze del SSN, anno per anno dagli stessi professionisti/operatori (clinici, assistenziali, organizzativi, relazionali, co-operativi…) incrementando così il senso di appartenenza e la condivisione delle responsabilità all’interno di una aggregazione professionale territoriale

- “produzione di salute” perché questo crea quella ricchezza in grado di bilanciare i costi della sanità.

- trasformazione del mmg in medico “autore” in grado di attuare una nuova prassi ( “opera”).

- rendere il mmg “azionista della sanità pubblica” affidandogli responsabilità dirette sul processo decisionale e sulla gestione del SSN

Come possiamo evitare di arrivare al punto di non ritorno?
La sanità privata è ormai un sistema molto potente in tutte le regioni ed in tutte le provincie. E’ molto complesso pensare ad una sua revisione radicale. Sarebbe come affrontare le problematiche sorte con il finanziamento pubblico della Fiat ad iniziare dagli anni ’70 aggravato da fatto che, oggi, gli occupati nella così detta sanità privata sono molto superiori al numero dei dipendenti della Fiat e la diffusione logistica del privato è capillare in tutto il paese. Vi sono precise responsabilità da attribuire ai decisori e alle forme di consociativismo. Alcune città dell’Emilia-Romagna, regione dove la narrazione ufficiale o i luoghi comuni porterebbero ad immaginare una maggiore diffusione del servizio sanitario pubblico, presentano una densità di strutture private sovrapponibile a quella della Lombardia.

Ciò che invece ha effettivamente condotto al capolinea di un binario morto sono stati i limiti culturali che si sono accumulati nel tempo e hanno interiorizzato un pensiero “privatocratico” generatosi proprio all’interno del Servizio Sanitario Pubblico. Da questa ”regressività” è verosimile che nessuna regione e nessuna azienda può chiamarsi fuori. E’ quindi impossibile uscire da questo flusso di torrente in piena per ricostruire una “titolarità del pubblico” con chi, in questi anni, ha coltivato un pensiero unico e debole così monotono e ripetitivo ( ossessivo?) da non permettere nemmeno un minimo di autocritica. Persistono infatti deliberazioni e narrazioni decontestualizzate ed antistoriche anche sul PNRR. Secondo la Corte dei Conti c’è un forte ritardo nella sua attuazione.

Le strutture in conto capitale sono progettate e deliberate senza mai coinvolgere nel processo decisionale (es.: sulla struttura/disegno architettonico) ex ante i professionisti che dovrebbero renderle efficienti ed anche efficaci. L’obiettivo delle aziende è molto orientata alla formazione “amministrata” degli operatori tanto che si prospetta una obbligatorietà fallimentare ( “il mmg segato in due per avere a disposizione due mezzi medici”!) per svolgere una parte del monte ore professionale tra le costruende Case della Comunità e gli ambulatori singoli o di proprietà.

Sembra che non esista la minima consapevolezza della realtà operativa quotidiana che impegna gli operatori territoriali ( mmg, altri sanitari, servizi…). Il rovinoso impianto orario ipotizzato dal DM 77 diventa impossibile da realizzare pena un ulteriore declassamento valoriale dell’assistenza di base. Il diritto alla salute come “meta-valore” in questo modo non viene rispettato.

Quale giudizio diamo delle nostre esperienze riformatrici e contro-riformatrici? A parte la già citata Riforma del 1978/ 833 le azioni riformatrici sembrano appartenere ad esperienze isolate e nascoste a causa di una qual diffidenza tra convenzionati innovativi e istituzioni. Chi riesce realizzare qualche aspetto creativo e riformatore, anche se non strutturato, desidera poter continuare ad operare silenziosamente per non rischiare di diventare oggetto di una invadenza amministrativa sapendo bene che l’esperienza pratica non potrà mai essere accolta così come viene applicata. Invece l’attività contro-riformatrice è molto attiva. E’ talmente pervasiva che nasce il sospetto che non vi sia nei decisori una piena consapevolezza di come le situazioni vengano ingarbugliate così da causare la lenta erosione della sanità pubblica. Anche la pandemia (già dimenticata) e la questione del PNRR sembrano aver prodotto ora un fastidioso ed estraneo rumore di fondo che distrae gli operatori dal compito di affrontare ogni giorno la “complessita’ del nostro tempo”.

Che giudizio diamo del nostro macroscopico anti riformismo? Inevitabilmente questa tendenza è molto forte, apparentemente inarrestabile. La globalizzazione (anche se attualmente potrebbe subire modificazioni profonde) e la finanza vincono sulla intelligibilità e sulle persone. La rassegnazione, l’individualismo, il singolarismo e il conseguente relativismo fa accettare, quasi passivamente, ogni forma di anti riformismo. Inoltre le logiche aziendali continuano ad essere concentrate su aspetti economicistici che vengono assunti come parametri meritocratici per distinguere i buoni dai cattivi clinici ( sic!).

Per quale ragione le cose in sanità restano saldamente invarianti? Le sovrastrutture di potere gerarchico non possono essere modificate. È noto a tutti che un bilancio regionale per un 70-80% interessa la sanità. È un potere enorme… qualche volta capita che incroci anche il bene comune. Il mercato, la governace, l’economicismo sono diventati sinonimo di equità, giustizia, universalità, libertà ed hanno uniformato sotto questo ombrello qualsiasi modello culturale. Il mercato rappresenta un potente impatto ma crea anche amnesie immediate. Le norme e le circolari devono avvicendarsi velocissimamente così sono in grado di catturano l’attenzione.

Non importa se sono riforme o contro riforme. Come la circolare della Sisac pare suggerire più i testi sono contradditori più creano infinite “chiacchiere”, finte attenzioni, spirali senza fine e giochi retorici. Ogni interpretazione è possibile. Quella che vince tuttavia è sempre la più forte. Che non significa che sia la più giusta.

Bruno Agnetti
CSPS (Centro Studi di Programmazione Sanitaria)

Leggi gli altri interventi al Forum: CavicchiL.FassariPalumboTuri, QuartiniPizzaMorsiani, TrimarchiGarattini e NobiliAnelli, GiustiniCavalliLomutiBoccafornoTosiniAngelozzi.

05 aprile 2023
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case della salute

Il Ssn è sempre più debole

Gentile Direttore,
pare che la sanità italiana abbia qualche problema a livello nazionale, regionale e locale. L’ipotesi per una riforma risolutiva cantata a suo tempo da Giorgio Gaber è draconiana e tende a eliminare ogni via di dialogo a causa dell’incapacità, da parte del potere decisionale, di formulare la minima autocritica.

Non si può però negare che da una parte il consociativismo e dall’altra una egoica interpretazione del termine “governance” abbia praticamente annullato ogni possibilità di confronto riformatore. Tra le numerose problematiche che si possono incontrare nella sanità un “dominio” particolare è rappresentato dalla medicina come sistema complesso.

C’è una complessità ontologica.

Il medico di medicina generale nel suo ruolo assistenziale, soprattutto quando come “clinico” è al letto del malato, deve poter sviluppare un processo cognitivo tale da “permettersi” un pensiero pacato e riflessivo che tenga conto della complessità della persona e della famiglia con cui si relaziona. L’eccessiva tecnologizzazione o specializzazione o burocratizzazione o maniacale ossessione per la medicina amministrata o raccolta ritualistica/tribale-idolatrica di dati da digitalizzare rischia di minare la capacità di affrontare i problemi del paziente in modo unitario e complesso.

La relazione tra medico impareggiabile e paziente che ha la possibilità di esercitare la libera scelta, risulta incommensurabile e non negoziabile: è uno dei diritti più importanti che le comunità dovrebbero difendere, se necessario, con concrete azioni sociali.

Vi sono esempi emblematici nei quali la burocrazia delle alte dirigenze si dimostra inadeguata. In questi casi l’approccio olistico e sistemico (la scienza della complessità) supera di molto in efficacia l’approccio amministrativo burocratico gerarchico considerato l’unica via riformatrice (in realtà ultima smisurata controriforma) dalle narrazioni contenute nell’ ACN, nel DM77, nel Metaprogetto…

C’è poi una complessità sociale.

L’intera sanità non andrebbe potenziata o riorganizzata o riordinata intorno ad evanescenti distretti o aziende o mega aziende (“di tendenza”) presentandole, ancora una volta, come solide piramidi gerarchiche quando invece traballano paurosamente in balia di mandati partitici/finanziari.

Nell’intervento su QdS del 5 dicembre 2022, forse come ultima spiaggia, si appoggiava convintamente la creazione di un “Comitato di salute pubblica” con l’obiettivo di formulare le basi epistemologiche e culturali di una riforma sostanziale della sanità pubblica. I criteri che dovrebbero possedere i pochi componenti la commissione risultano talmente distintivi che i nomi e cognomi, anche se formalmente non riportati, sono perfettamente individuabili.

Dopo l’iniziale fervore culturale, professionale e civile seguito all’istituzione del Servizio Sanitario Nazionale (L. 23/12/1978 n.833) sono subito iniziate le bordate burocratiche amministrative che anno dopo anno, decreto dopo decreto, normativa dopo normativa hanno creato un “corpus iuris” blindato, autoreferenziale e autoprotettivo ( per le istituzioni sanitarie) abbandonando così, via via, l’anima strutturale e la base culturale contenuta negli ideali e nelle mission della legge 833.

Il così detto “secolo breve” non è quindi effettivamente mai terminato in sanità in quanto la struttura cognitiva delle alte dirigenze regionali e locali sono rimaste tipicamente novecentesche.

Le scosse telluriche procurate dal Covid non hanno minimamente influito sulla consapevolezza di addivenire ad una riforma epocale. Per il PNRR sono stati elaborati affannosamente, (come se non fossero mai esistiti pianificazioni o programmazioni sul medio/lungo periodo) obiettivi e progetti spesso in conto capitale, totalmente scollegati dal contesto.

Avere assicurato il contributo economico dell’Unione Europea non risolve le principali questioni paradigmatiche della sanità. I documenti ufficiali diffusi recentemente sembrano vantare l’ambizione di aver prodotto fondamentali innovazioni. La loro lettura crea invece notevole imbarazzo. I testi sembrano miscugli di concetti o idee, furtivamente recuperati da agili “copia ed incolla”.

Emerge da tutto ciò un servizio sanitario pubblico culturalmente molto indebolito testimone di dis-valori (relativismo e secolarismo) provenienti dalle modalità operative/gestionali del potere decisionale e forse inconsapevolmente assorbiti dalle nuove generazioni di professionisti. I medici storici (es.: i baby boomer) in procinto di passare in massa alla pensione hanno sperimentato gradualmente il passaggio dalle mute al SSN, dal telefono fisso al cellulare, dalla penna al computer, da una visione della pratica professionale paternalistica a quella bio-psico-sociale per atterrare a volte, in questi ultimi vent’anni, ad una cultura del così detto pensiero unico e debole.

I giovani professionisti di oggi si trovano in una situazione sociale e relazionale completamente nuova dove il malessere o la conflittualità è inter-generazionale perché all’interno della professione convivono i baby boomer ma anche medici digitali nativi e dove visioni, missioni, cultura, genere, obiettivi, Intelligenze Artificiali IA e modalità operative sono cognitivamente completamente diverse.

Mentre si iniziano a vedere i primi cantieri per le “Case della Comunità” sorge spontanea una domande: dove sono finite le tanto decantate co-operazioni ex ante con i professionisti e con il terzo settore? “Dura lex, sed lex”: non vi sono infatti attualmente (salvo sorprese) reali possibilità di modificare nulla.

La disillusione è dilagante. L’ennesima controriforma in atto è riuscita nell’intento di fare apparire molto più trasparenti ed efficienti le organizzazioni professionali autonome-cooperativistiche “profit” a fronte della confusione imperante nel servizio pubblico sempre più impegnato a gestire il potere per il potere.

Inoltre dall’inizio del periodo pandemico dilaga la “moda” delle reiterate danze tra nomine (regionali-aziendali) che si sovrappongono ai commissariamenti e questi ai sub commissariamenti per poi ricominciare da capo. E’ facile così perdere il conto sulle posizioni decisionali di chi fa che cosa…

Bruno Agnetti

CSPS (Centro Studi Programmazione Sanitaria)

10 gennaio 2023
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Medicina Territoriale

Le case della comunità nei quartieri, una scelta in ritardo di anni

22 FEB - Gentile Direttore,

Sul filo di lana del traguardo della consiliatura posso manifestare una malcelata soddisfazione per il fatto che almeno è emersa "ufficialmente" una qualche "sensibilità" su temi direttamente coinvolti all’assistenza sanitaria territoriale avvenuta con la presentazione della delibera della Giunta comunale nella quale si esprime parere favorevole sul sistema strutturale delle così dette Case della Salute (oggi più propriamente definite Case della Comunità) di via XXIV Maggio (quartiere Lubiana) e di via Verona (quartiere San Leonardo).

Null’altro che una "sensibilità" forse nemmeno genuina ma dettata dalla necessità di presentare qualche progetto al fine di racimolare in fretta e furia quel che resterà del Pnrr.

Attualmente le due denominazioni (Case della Salute/Case della Comunità) possono essere considerate concettualmente sovrapponibili come funzioni e obiettivi professionali e assistenziali anche se è probabile che nei prossimi anni possano essere declinate operatività e integrazioni diversificate in relazione agli sviluppi culturali e normativi in atto (Pnrr, contratti nazionali, accordi regionali e locali, approfondimenti e interpretazioni pubblicati da numerosi commentatori nazionali e locali).

Credo a questo punto di poter dare un significato parzialmente positivo al mio mandato amministrativo, considerato che l’obiettivo principale , quello di portare all’interno dell’Amministrazione comunale una attenzione politica alla situazione locale sanitaria periferica, ha causato tuttavia indirettamente una reazione.

Non sono sicuro ma senz’altro la delibera, che arriva con un ritardo di numerosi anni tanto da rendere già obsolete le disposizioni assunte,  sarà scaturita da una approfondita analisi dei bisogni e delle necessità assistenziali e professionali dei quartieri e che saranno stati evasi i necessari confronti e dibattimenti con le comunità e con i professionisti interessati.

Grazie a questi numerosi scambi di vedute saranno stati presi in considerazione gli effettivi bisogni logistico/architettonici, assistenziali e professionali valutando anche quanto elaborato dalla letteratura di settore in questi anni che considera la multifunzionalità e la gradevolezza degli ambienti metafora della guarigione e del benessere.

Come emerge da numerosi resoconti, la vita della singole comunità non richiede la collocazione nei quartieri di poliambulatori ma di strutture in grado di rispondere alle necessità di una società moderna, attiva, con specificità identitarie e la peculiarità diffusa all’incremento delle cronicità ma anche di soggetti appartenenti alla così detta terza e quarta età tuttavia in buona salute, età che non può però essere risolta dal paradigma della città in 15 minuti.

Diversi commentatori hanno evidenziato come siano fondamentali le cooperazioni tra il sociale (inteso come servizi istituzionali ma anche come società civile organizzata) e il sanitario e come l’attività riabilitativa "continuativa" neuro-motorio e cognitivo-psicologico possa essere indispensabile anche per fasce di popolazione più giovane.

A tempo scaduto emerge l’urgente necessità di realizzare gli ospedali di comunità con mansioni anche di hospice (secondo quanto ricordato dal British Medical Journal) che, come dice la parola, per essere tale, cioè per essere Ospedale di Comunità, deve essere inserito proprio nella comunità stessa e nella struttura (Casa della Salute/Casa della Comunità) nella quale si realizza l’integrazione multiprofessionale (medicina generale, 118, continuità assistenziale), multidisciplinare (sanitaria, specialistica, diagnostica), multisettoriale (amministrativo, di volontariato e di terzo settore), relazionale (partecipazione della comunità di riferimento).

Tuttavia la lettura della delibera lascia numerose questioni in sospeso e non affrontate tanto da apparire inadeguata alle finalità che apparentemente sembra indicare.

Già sono passati molti anni dalla formulazione dei propositi contenuti nel testo del provvedimento e forse ne trascorreranno molti altri che potrebbero cambiare visioni, missioni e amministrazioni.

Al momento sembrano affiorare alcune criticità in merito alla condivisione con la popolazione, al confronto con la letteratura di settore, alla realizzazione degli spazi e delle funzioni tra le due Case della Salute/Case della Comunità citate nella delibera.

La mancanza di una visione ambiziosa, contestuale e allacciata alla realtà attuale continua la tradizione dell’opinione tendente al massimo ribasso (conto capitale e organizzazione corrente) inversamente a quello che dovrebbe essere il massimo rialzo (della qualità professionale e assistenziale).

Il concetto di visione ambiziosa (se non ora quando?) viene assimilata da alcuni come un pensiero puerile indegno di essere preso in considerazione e per questo manipolato in senso denigratorio. Manca la cultura del bene comune.

Tutto ciò non ha permesso un cambio di passo e trascina con sé le note criticità sanitarie (l’Ausl è commissariata da quasi due anni senza che nessun dirigente sanitario o responsabile amministrativo comunale abbia spiegato alla popolazione il perché) che continuano a condizionare questa città dando origine a quartieri e cittadini di serie A e serie B così come vi sono professionisti sanitari di serie A e B (manca una programmazione sanitaria territoriale locale efficace per le giovani generazioni di professionisti) e così tra gli stessi dirigenti sembrano esserci quelli di serie A e quelli di serie B.

Sembra proprio che Parma debba giocare "così così" sempre in serie B. Infatti, quale beneficio è arrivato in città grazie al commissariamento misterioso dell’azienda sanitaria locale?

Oggi le malattie improvvise incidono di meno sul complesso assistenziale e professionale delle patologie di lunga durata, quelle che rientrano nel termine cronicità.

Già è stato detto che molte persone della terza e quarta sono senili ma fondamentalmente sane. Quelli che si ammalano spesso non guariscono, si cronicizzano e quindi è assolutamente necessario pianificare con abilità e intelligenza una innovazione del territorio affinché riesca ad affrontare la presa in carico della fragilità (termine generale che contiene numerose forme di malattie o disagi) nella piena consapevolezza che affrontare le problematiche non significa trovare risposte universali.

Occorre ripensare e abolire gli ambiti territoriale e permettere ai giovani medici del territorio di formare gruppi omogenei, affiatati, numerosi e con uno specifico progetto assistenziale autogenerato che siano in grado di assumersi in carico un territorio di riferimento.

Una medicina basata solo sulle evidenze scientifiche non è in grado di affrontare la complessità sociale e sanitaria che non è mai lineare, protocollare, algoritmica, normativa, economicistica.

Occorre innovare e costruire un nuovo sapere fondato sui valori, sulla cultura, sull’esperienza, sull’etica, sul bello e sull’arte. Questo sapere deve essere autonomo, solido, costruito dalla comunità e realmente trasmissibile alle nuove generazioni di professionisti. Per molto tempo abbiamo pensato che la scienza potesse dare risposte appaganti ma ora comprendiamo che occorre tornare all’umanesimo. Covid docet.

Le comunità, insieme ai loro professionisti di riferimento, possono modificare il rapporto con la cura, la salute e il benessere. L’emergenza, lo scientismo, il vitalismo hanno rischiato di trasformare la cura il un oggetto di mercato.

Nella realtà il prendersi cura è un processo, un susseguirsi di momenti che si seguono nel tempo l’uno dopo l’altro e che si fondano non sulla guarigione (cosa significa guarire?) ma sulla relazione tra professionisti e persone che chiedono l’aiuto, familiari, colleghi, comunità…questi interessi uniti e basati sull’umanesimo possono, forse, incidere sull’attuale cultura regressiva delle istituzioni sanitarie e delle amministrazioni politiche.

Bruno Agnetti

Centro Studi Programmazione Sanitaria (CSPS) di Comunità Solidale Parma ODV

22 febbraio 2022
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