“Comunità”, termine inflazionato?

08 APR - Gentile Direttore,
“In quel paese che sorge in qualche angolo dell’Italia… nella pianura del Po… ciascuno lotta a suo modo per costruire un mondo migliore… e qui accadono cose che non accadono in nessuna altra parte del mondo…”. Si diceva così nel film (1952) tratto dal romanzo di Giovannino Guareschi, “Don Camillo”.
Il termine “comunità” diventa dominante, in particolare nelle alte amministrazioni e nelle alte dirigenze, (salvo realtà germogliate nel volontariato in tempi non sospetti dopo lunga meditazione e condivisione) dopo i suggerimenti contenuti nel PNRR. Risente di contingenze e di modifiche interpretative e, per questo, è poco autorevole: non ha avuto il tempo di generare una narrazione veritiera. Non crea coraggio. E’ disfunzionale. Non crea comunità e viene percepita come un surrogato intellettuale che offre un finto senso di identità a buon mercato.

Non è il modello di cure primarie del Brasile o quello Portoghese (sic!) pur tuttavia emerge, nel “mondo piccolo”, qualche esperienza sanitaria di base o territoriale, ben “stagionata”, che potrebbe ottenere miglior fortuna a fronte di ipotesi di tendenza ma alquanto salottiera.

Purtroppo non sono gli appelli o le petizioni che modificheranno la brutta china scivolosa nella quale si trova il nostro sistema sanitario (in particolare quello territoriale). Le cause sono note. La presenza, tra i firmatari delle istanze, di persone che meritano un indiscutibile rispetto non nasconde il fatto che vi siano responsabilità storiche perfettamente identificabili.

La criticità relativa al finanziamento è certamente un argomento serio. La globalizzazione e l’egemonia finanziaria alimenta un consumismo che tende all’infinito. Di conseguenza i fondi non saranno mai sufficienti se oltre all’aspetto economico/finanziario non si associa una solida riforma compossibile previo ampio dibattito pubblico con i professionisti e i cittadini o almeno parlamentare. In questi anni la Conferenza Stato Regioni ha esercitato un ruolo decisionale quasi egemonico con la propria Commissione Sanità continuamente presieduta dai rappresentanti di una o due regioni: la sola questione danarosa quindi potrebbe apparire come un ineccepibile alibi piagnucoloso al fine di oscurare i pregressi processi decisionali controriformisti o esigenze di apparato.

Il mondo della sanità si sta orientando in senso opposto alla 833? Il nostro paese non ha una sovranità tale da potersi opporre, a livello sanitario, al consumismo neo-liberale? Lo si dica chiaramente e forse la società civile, stanca di gestioni consociativistiche e deludenti, troverà una soluzione già sperimentata nella sua storia di associazionismo e di auto-aiuto.

Se invece si considera la sanità una delle più importanti opere pubbliche della nostra nazione occorre trovare il modo di non abbandonare questo bene comune ricorrendo, con responsabilità bipartisan, a modelli come il Welfare di Comunità (vero!) elaborato da Stefano Zamagni e al medico autonomo/autore di Ivan Cavicchi.
La riforma 833/1978 è stata crivellata, dalla sua promulgazione ad oggi, da una infinità di controriforme (nazionali e locali) che l’hanno sostanzialmente annullata.

Attualmente l’asfissiante chiacchiericcio sulle Case della Comunità, Ospedali di Comunità, Distretti, dipendenza dei mmg ecc. sembra voler nascondere la mancanza di una cultura sanitaria pubblica.

La comunità, secondo Aristotele, non è definita da un luogo, da un ambito geografico o da una struttura (CdC) ma dal fatto che un gruppo di cittadini siano in grado di garantire una buona vita alle persone di un territorio affinché possano sviluppare una esistenza indipendente e autonoma pur all’interno di una reciproca solidarietà così che concretizzi una vita degna di essere vissuta. La comunità (contenuta nei numeri) è prioritaria rispetto ad un individuo anche se, proprio grazie alla solidarietà degli altri, lo stesso soggetto singolo può sviluppare la propria individualità.

Infatti la persona non solo è un vivente politico-sociale-comunitario ma è anche l’unico essere che ha il logos cioè il linguaggio-ragionamento “prudente/calcolante” ed è in grado, con la ragione e il dialogo, di stabilire, ad esempio, forme di assistenza misurata (es.: da parte dei mmg) e proporzionata per quella comunità affinché non prevalgono logiche individualistiche dannose (es.: un consumismo amministrativo).
Ciò che dà valore “unico” ad una comunità raccolta intorno ai propri mmg di riferimento sta nel fatto che, in questo modo, è possibile soddisfare i bisogni dei suoi componenti seguendo il criterio di “finitezza” a sua volta sostenuto dal tessuto solidale. Da questo punto di vista potrebbe apparire irragionevole e solo economicistico mettere in campo un costoso meccanismo di appropriatezza prescrittiva. Chi se non il mmg può aiutare le persone, che lo hanno scelto fiduciariamente, ad inserire nel loro bagaglio culturale il concetto del limite, della misura, financo che la vita ha un termine? Non saranno certo le istituzioni o le alte dirigenze o le amministrazioni o i protocolli o gli algoritmi a poter comunicare empaticamente tali riflessioni.

Contrariamente alcuni recenti movimenti filosofici, immersi in una realtà neoliberista, tendono a promuovere una vita illimitata e senza termine (trans umanesimo e post umanesimo). Così la società consumistica opterà per un soddisfacimento dei desideri individuali con quella smania di illimitatezza che corrisponde alla massima distanza dalla ragione. Questa cultura che penetra anche le istituzioni e i gruppi culturali satelliti porta alla disgregazione del tessuto comunitario e della sua tenuta etica. La mancanza di limite riproduce sempre lo stesso ciclo di produzione consumistica tanto da arrivare ad utilizzare i cittadini (volontari, professionisti, assistiti) come semplici strumenti operativi.

La comunità giusta è quella che non è troppo grande né troppo piccola, non ha troppi abitanti né troppo pochi, non conta persone troppo ricche né troppo povere. E’ una popolazione che necessita quindi di un auto-controllo autonomo interno grazie ad individualità specifiche solidali (es.: mmg fiduciari) e all’alternanza tra il governare e l’essere governati perché, questo, è il vero abitare la democrazia.

Tommaso (che avrebbe volentieri voluto battezzare Aristotele), sostiene che, nel caso vi fosse pericolo per la comunità e il bene comune, sarebbe lecita la “perturbatio” cioè la ribellione in quanto significherebbe disubbidire ad una tirannide e obbedire a Dio.

Bruno Agnetti
Centro Studi Programmazione Sanitaria (CSPS) di Comunità Solidale Parma ODV

08 aprile 2024
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Un attimo, per riprendere fiato dal soffocante pensiero unico

Gentile Direttore,

le note controriforme e le ingarbugliate innovazioni, pur consacrate dal soffocante pensiero unico, mostrano già l’inconsistenza a causa di fondamenta costruite sulla sabbia. Alcuni ricorderanno i contenuti del art. 1 della legge Balduzzi (2012) dove si declinavano le funzioni delle AFT (Aggregazioni Funzionali Territoriali). Le regioni hanno poi generato caos inventando numerosi acronimi per marcare il loro territorio. Il DM 77 è una legge che sembra fatta su misura per creare confusione. Fa eco il recente ACN.

Il PNRR sollecita espressamente l’attuazione dell’assistenza di prossimità ma considera le CdC e gli Ospedali di Comunità (tutt’altro che di Comunità) come esempi e non come modelli unici. Ex cathedra si ammette infatti che le CdC (prevalentemente “spoke”) non siano adeguate ai reali bisogni delle popolazioni e dei professionisti.

Nonostante l’inesorabile penetrazione del privato nel SSN, le alte dirigenze (Regionali e Aziendali) si sono cullate nella certezza della loro perenne esistenza e del fatto che alcuni servizi non sarebbero mai stati appetibili al privato-privato e il ruolo di dominio istituzionale, in quei settori, non sarebbe mai stato conteso. In pochi mesi si sono moltiplicati PS, Sert, pronti interventi di base h/24, rianimazioni… il tutto rigorosamente privato-privato!

Alcuni commentatori hanno osservato che le gerarchie di potere (“sappiamo cosa è meglio” per voi) potrebbero essere le prime a non volere mai nessuna vera innovazione proprio perché sarebbe più conveniente, per loro, un orientamento sulla malattia piuttosto che sul cittadino. Così appaiono come “grande finzione” anche le CdC conformi alle contraddizioni contro-riformistiche e ai consociativismi. Questi ultimi probabilmente non più attribuibili a convergenze storiche (es.: istituzioni e sindacato) ma a solide collaborazioni tra istituzioni e/o gruppi che condividono interessi particolari e comuni.

L’urgenza riformatrice desiderata da cittadini e professionisti è contrastata dalla smisurata quantità di tempo gestionale a disposizione delle alte amministrazioni dove il neoliberalismo ed il consumismo sembrano essere proprio di casa.

Il potere di Regioni e Aziende è talmente possente che non c’è spazio per elaborazioni che non siano più che allineate in quanto ciò che una regione delibera, in ambito sanitario, diventa legge. Le Aziende Locali, poi, applicano il mandato avendo come principali o unici referenti politici e datori di lavoro gli Assessorati Regionali.

Si ricorderà l’enorme pressione comunicativa messa in atto nel periodo in cui gli apparati avevano deciso di chiudere i piccoli ospedali territoriali spesso presidi “gioiello” e vere scuole di integrazione con il territorio. Anche allora (USL) i referenti erano politici ma facilmente raggiungibili ed individuabili. I piccoli ospedali sono stati chiusi con la promessa di istituire presidi territoriali “equivalenti”. Ciò poteva sembrare, in un primo momento, accettabile per professionisti e cittadini ma poi è stata varata la controriforma sulle CdS del 2016.

Il Covid ha ricordato tutto ciò ma, al momento, il sistema è immodificabile a causa della legislazione vigente.

Una riflessione a parte merita la questione “comunità”. Non vi sono dubbi che il senso di appartenenza e i legami sociali siano stati fortemente provati dalla globalizzazione finanziaria. Dal punto di vista sociologico-sanitario, per la prima volta, si verifica un elemento inedito. Si può osservare la compresenza, in ambito occupazionale, di nette stratificazioni generazionali che manifestano dirompenti differenze culturali.

Nello specifico i giovani colleghi che intraprendono, oggi, la professione di mmg si trovano a confrontarsi in modo nuovo con istituzioni a struttura medioevale e con le comunità di riferimento (assistiti coetanei ma anche “silenti” o “boomer” che li hanno scelti fiduciariamente). Cosa ricercheranno nei giovani medici questi cittadini? Come considereranno i mmg il loro inquadramento professionale-giuridico, la loro autonomia, l’essere all’interno di una sempre più diffusa complessità, l’aumento delle tensioni sociali e le smisurate ansie individuali di molti assistiti?

Forse la generazione precedente dei medici di famiglia non si è preoccupata di organizzare una adeguata trasmissibilità esperienziale ai giovani colleghi così, è possibile, che gli stessi nuovi mmg non si siano particolarmente interessati a questo aspetto. Non di meno la professione sarà coinvolta nel far fronte ad alcuni strati della popolazione che manifesterà sindromi da sradicamento culturale e che frequenteranno l’ambulatorio del medico di base.

Considerato questo stato di cose i giovani colleghi potrebbero rappresentare un valore aggiunto in grado di comporre una sintesi tra professione e società. Dal punto di vista antropologico si può sostenere che i giovani professionisti abbiano un “cervello” nuovo, una professionalità e una intellettualità immersa nella marea tecnologica in grado di far fronte alle criticità sanitarie burocratiche-amministrative e di affermare una autonomia professionale coerente con il paradigma della complessità.

Questa potrebbe essere la vera “casa” abitata da giovani dottoresse (maggioranza in ambito delle cure primarie) e dottori abili nel costruire i principi per una riforma strutturale nazionale che necessita, per forza di cose, di una partecipazione bipartisan se si desidera finalmente superare tutte le assunzioni controriformiste. Tra queste vanno ricomprese anche gli improbabili modelli esteri o esotici molto pubblicizzati (come nella più classica delle promozioni neo-liberali) dimenticando, colpevolmente, la presenza, nel nostro paese, di questa nuova generazione di medici, inimmaginabile fino a poco tempo fa.

Non a caso l’ultima fatica del Prof. Ivan Cavicchi (“Medici vs Cittadini”, Castelvecchi, 2024) affronta il tema della ridefinizione giuridica del medico ma immette anche, all’interno del dibattito e della riflessione, la questione della complessità come nuovo “archè” che non può più essere tralasciato (Byung-Chul Han, “La crisi della narrazione”, Einaudi, 2024) se si desidera rappresentare la “questione medica” e una cultura assistenziale coerente con l’attualità post-moderna.

Bruno Agnetti

Centro Studi Programmazione Sanitaria (CSPS) di Comunità Solidale Parma ODV

25 marzo 2024

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Medicina Territoriale

La professione medica è ancora in grado di riprendere in mano il proprio destino

Gentile Direttore,

ancora una volta Ivan Cavicchi con il suo nuovo instant book (Medico vs cittadini, un conflitto da risolvere, Castelvecchi, 2024) ha regalato una profonda riflessione che parte dalla controversia della “colpa professionale medica” ed arriva ad affrontare un tema filosofico, etico, sociale semplicemente enorme.

Il professore e collega ha pensato di giocare d’anticipo senza aspettare la conclusione dei lavori della Commissione d’Ippolito costituita, ad hoc, dal Ministero di Giustizia con l’obiettivo di segnalare possibili errori e contraddizioni che potrebbero, se non rivisti, rendere la categoria e i cittadini “prigionieri di leggi sbagliate” difficilmente poi modificabili.

Già il titolo del libro pone un tema etico complesso: tutti i medici sono cittadini ma non tutti i cittadini sono medici: in una situazione di questo tipo chi riveste un ruolo sociale e professionale particolare? Come si può costruire o formare, oggi, una relazione pattizia medici e cittadini? Chi può svolgere la funzione educativa/pedagogica e quella di testimone del “contratto sociale”? Chi riconosce chi? Come può essere costruito un adeguato e contestuale rispetto reciproco?

Sono quindi in gioco “un mondo” di valori essenziali. Sia sufficiente, in questa sede, pensare a cosa capita quotidianamente nella realtà assistenziale: nelle cure palliative portate al letto del malato, al suo domicilio dal mmg che, proprio per il contratto sociale “immateriale”, l’assistito “elegge” come giusto, libero, veritiero, valido e in grado di assisterlo negli ultimi momenti. La situazione è incommensurabilmente diversa da un banale contratto d’opera, se non altro, perché si ha a che fare con il mistero della vita e della sua conclusione. Ha poca importanza, alla fine, la tecnologia o le altre competenze scientifiche. Ciò che è veramente richiesto è una avvolgente abilità relazionale (infatti il mmg è considerato il palliativista di riferimento per il proprio assistito).

Forse una attualizzazione degli storici criteri relativi alla “colpa” professionale (imperizia, imprudenza, negligenza) potrebbero essere più che sufficienti per poter archiviare o attivare le sanzioni, in tempi brevissimi. L’errore umano è sempre possibile a fronte di una realtà ancora sconosciuta nella sua essenza (la vita), che alcuni considerano sacra, e forse è anche corretto che chi deve prendere decisioni tenga conto di questo aspetto.

Non è compito della Commissione Ministeriale indicare le strategie per ridurre la conflittualità però, la stessa Commissione, potrebbe avventurarsi in qualche sapiente suggerimento. Se la problematica di fondo è la formazione generale dei professionisti affinché siano in grado di leggere le modifiche sociali e di ridurre di conseguenza i contrasti, quante cose devono cambiare per impostare ciò che sarebbe necessario? Che valore culturale e di maturazione professionale possono apprendere gli studenti di medicina sottoposti, per gli esami, a test scritti pieni di trucchetti e tranelli più che di una vera valutazione della maturità professionale in crescita? Che rapporto possono avere i futuri medici con il sociale o con il sapere se tutto viene ridotto ad un perfido e narcisistico superenalotto?

Siamo certi che non siano ormai fondamentali, durante il corso di laurea, più esami di psicologia, filosofia, etica, sociologia, antropologia, accorpando eventualmente, qualche esame che tende a ripetere ciò che è appena stato fatto al liceo?

Anche le istituzioni locali e regionali, seguite pedissequamente dai loro accoliti, hanno palesato una incapacità culturale assordante. E’ stato fatto di tutto per fare sprofondare la professione così che il rapporto professione-cittadini è diventato di fatto inagibile.

Il riconoscimento reciproco (patto sociale) resta fondamentale se i due “giocatori” in campo (medici e cittadini), non vogliono perdere.

Il tempo che stiamo vivendo potrebbe essere sintetizzato da alcune parole chiave: modernismo, postmodernismo (quarta rivoluzione), trans-umanesimo, post-umanesimo, consumismo, globalizzazione, neoliberalismo. Una bella complessità. Nemmeno il Covid è riuscito a stimolare pratiche di cambiamento radicale. In ogni caso i movimenti filosofici citati e l’inarrestabile avanzamento tecnologico obbligherà la professione a profonde modificazioni che la regressività di DM77, ACN, Regioni e Aziende non sono nemmeno in grado di immaginare (“cinismo dell’incapacità”). La “quarta rivoluzione” se non sarà gestita con intelligenza ed umanità darà valore non tanto ai professionisti ma ai contratti d’opera, ai formulari, alle procedure, agli algoritmi prescrittivi, ai nomenclatori, ai tariffari… ma dove sarà il medico amico sincero e disinteressato nei momenti importanti della vita? Alcune teorizzazioni del post umanesimo ipotizzano la definitiva scomparsa dei dualismi così che in un mondo di cyborg non ci sarà più posto (bisogno) per medici e cittadini e nemmeno per l’umanità.

La medicina generale può ancora diventare un valido strumento per ridurre la conflittualità sociale in ambito sanitario. Infatti nelle piccole comunità, ancora oggi, riesce a dare un senso alle cose fondando l’agire professionale sul contratto sociale “olistico". La scelta fiduciaria favorisce una azione educativa e formativa che permette di far fronte al dott. Google, ai robot, ai totem, all’assalto dei “malatisti” esperti in scorciatoie per il PS e per la specialistica/diagnostica.

Anni di discredito da parte delle aziende e delle regioni nei confronti delle competenze diagnostiche, terapeutiche, riabilitative dei mmg non poteva che portare tutti al punto in cui ci si trova. Il relativismo e l’economicismo hanno desertificato l’ambito dei valori ma il medico, se vuole, ha la sensibilità per ritornare a riconoscere il dolore umano (e il proprio) e ad ascoltare la sofferenza (che è l’elaborazione mentale del dolore). Questo anche se la società è imbibita di ansia, non riesce più a rallentare, l’amigdala è iperfunzionante mentre la corteccia prefrontale, razionale, è inibita. Le persone non sono più abituate ad affrontare certi temi che la tradizione aveva comunque inserito e mantenuto anche nel periodo della modernità e della postmodernità (il fine vita, la malattia, il dolore, la sofferenza, l’ansia). Il medico è ancora in grado di riprendere in mano il proprio destino e quello della professione perché la cura e il prendersi cura non rientrano solo nei diritti politici ma è l’espressione di una questione ontologica (medicina scienza coraggiosa e impareggiabile).

Bruno Agnetti

Centro Studi Programmazione Sanitaria (CSPS) di Comunità Solidale Parma ODV

06 marzo 2024

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Una formula esemplificativa può essere considerata una affermazione cogente?

Gentile Direttore,

nel 2021 l'Unione Europea ha regolamentato il noto strumento finanziario (PNRR) per supportare la ripresa negli Stati membri dopo il periodo Covid. Nel 2022 è stato emanato il Decreto Ministeriale (DM77) che descrive i nuovi modelli e gli standard per lo sviluppo dell’assistenza territoriale del SSN (Casa della Comunità, Numero europeo per la Centrale Operativa, Centrale Operativa Territoriale, Infermiere di Famiglia e Comunità, Unità di Continuità Assistenziale, Assistenza Domiciliare, Ospedale di Comunità, Rete delle Cure Palliative, Servizi per la Salute dei Minori-delle Donne-delle Coppie-delle Famiglie, Telemedicina).

Nel 2023 la modifica del PNRR presentata dal Governo italiano non ha modificato la Missione 6 (potenziamento e creazione di strutture e presidi territoriali, il rafforzamento dell’assistenza domiciliare, lo sviluppo della telemedicina ed una più efficace integrazione con tutti i servizi socio-sanitari). Nello stesso 2023 viene istituito un tavolo tecnico (affollatissimo) dal Capo di Gabinetto del Ministero della Salute con il fine di studiare le criticità emergenti sanitarie anche se nei vari sottogruppi non è stato espressamente indicata, come materia da indagare, il riordino delle cure primarie. Di conseguenza si può ritenere che il DM 77 non contenga particolari criticità relative all’organizzazione assistenziale territoriale.

Gli interventi riportati su QdS in merito alla medicina generale sono stati molto interessanti, operativi e pragmatici. Le diverse sensibilità sono tutte meritevoli di attenzione (es.: mmg dipendenti o mmg liberi professionisti convenzionati autori/opera di se stessi). Nondimeno sarà concesso a qualche “spettatore”, di approfondire alcuni contenuti con l’angolo di osservazione dell’assistito che, per ragioni varie, frequenta gli ambulatori dei mmg.

L’intento dell’esercizio è quello di analizzare se in qualche costrutto teorico possano celarsi antinomie o contraddizioni in grado di minare nelle fondamenta le stesse ipotesi a discapito dei pazienti e dei loro medici di base di riferimento.

Il latte è stato frettolosamente versato e le norme sono state emanate per la soddisfazione di aziende e regioni.  È facilmente prevedibile che dopo la cornice, sufficientemente regressiva, del recente ACN, le regioni, nella loro già smisurata autonomia in tema sanitario, recupereranno il terreno e re-interpreteranno l’intero DM77 “pro domo eorum” con la pubblicazione degli Accordi Regionali.

Nel postulato di base del PNRR (assunto poi pienamente dal DM 77 e nel divinizzato pensiero unico dominante che incensa in ogni dove le Case della Comunità spoke) si afferma che per adempiere alla Missione 6 punto 1 sia opportuno erogare prestazioni, creare strutture e presidi territoriali. Questa affermazione è subito seguita da una parentesi che inizia con un “come”. In che modo va interpretato il “come”? Secondo la Treccani il termine “come” potrebbe essere considerato un avverbio di maniera (esemplificativo, al modo di) senza per forza significare una iniziativa a carattere cogente. Se così fosse sorge spontaneo il dubbio che il punto 1 della Missione 6 possa essere raggiunto anche con altre modalità più adatte alla complessità e alla compossibilità tipica delle cure primarie (es.: con il potenziamento strutturale e funzionale, su tutto il territorio nazionale delle medicine di gruppo e dei NCP seguendo anche le linee guida professionali Wonca singolarmente nemmeno nominate nel DM77 e nel recente ACN).

Le leggi e gli accordi sono comunque varati e la nave ha impostato una rotta (improbabile). La soffocante narrazione unica (incantatrice, contagiosa e foriera di relativismo etico) insiste sui grandi benefici delle Case della Comunità spoke che tuttavia presentano, nella concretezza, un’offerta di servizi carente e nemmeno paragonabili alla reale operatività di una qualsiasi Medicina di Gruppo ben organizzata.

Comunità Solidale Parma, associazione di volontariato (ODV), grazie alla disponibilità dei volontari facilitatori, sta realizzando una piccola indagine (questionari e interviste) rivolta ai pazienti che frequentano l’ambulatorio/medicina di gruppo. La finalità è quella di sondare uno stato d’animo e il clima emotivo degli assistiti nei confronti della medicina generale di base e delle informazioni che le persone ricevono dai media in merito a questo tema. Da una prima stima molto parziale, non analitica e casalinga, emerge che su 100 assistiti adulti, frequentatori della medicina di gruppo il 47% non sa cosa sia una “Azienda” sanitaria; il 71% considera il rapporto fiduciario con il mmg fondamentale e non vorrebbe che il medico di base diventasse un dipendete pubblico; il 57% si augura che il SSN abbia una direzione nazionale e non regionale e il 66% vorrebbe cimentarsi, autonomamente, nell’intero processo decisionale su questioni che riguardino la comunità o il quartiere nella convinzione che la medicina generale vada considerata un bene comune per una popolazione. Il 68% degli assistiti contattati hanno dichiarato di non sapere quale sia la differenza tra Casa della salute e Casa della Comunità. Percentuali molto elevate e positive, 82%, hanno ricevuto le domande che indagavano il gradimento degli assistiti verso il ruolo di servizio dei volontari facilitatori presenti tutti i giorni in ambulatorio con la funzione di aiutare l’accesso e l’orientamento degli assistiti soprattutto quando le questioni richiedono accoglienza affettuosa e parole cordiali.

Alcuni comportamenti all’interno delle piccole comunità guidati dall’etica professionale e collettiva possono interagire in modi complessi ma sono in grado di riformulare il futuro sanitario. Indipendentemente dalle norme già varate nulla impedisce di pensare a nuovi modi di fare le cose capaci di rendere culturalmente inutili quelle attualmente proposte (già avvizzite al loro apparire).

Bruno Agnetti

Centro Studi Programmazione Sanitaria (CSPS) di Comunità Solidale Parma ODV

04 marzo 2024

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case della salute

La gerarchia è ineluttabile?

31 LUG - Gentile Direttore,
è nozione diffusa che il nostro sistema democratico sia di tipo rappresentativo. Non è una democrazia diretta. Per temperare una certa incompiutezza del sistema rappresentativo l’organizzazione politica/sociale prevede l’esistenza di molti enti finalizzati a mitigare l’inevitabile distacco che si crea tra cittadini e istituzioni (es.: corpi intermedi e organi sussidiari) affinché questi rappresentino nel modo il più diretto possibile le esigenze popolari. Questo processo acquista un valore particolare in sanità.

Non si può dire che il tema “partecipazione” sia stato realizzato se molti cittadini non conoscono (fatto salvo per gli addetti ai lavori) cosa significhi commissariamento o sub-commissariamento e per quali motivi vengano attivati. Oscure per la maggior parte delle persone sono le definizioni e le funzioni dei Comitati Consultivi Misti e delle Conferenze Socio Sanitarie Territoriali o dei Piani di Zona. A volte il turbinio degli avvicendamenti intra-regionali tra componenti delle alte e medie dirigenze non permettono nemmeno agli addetti di avere interlocutori.

L’esaustiva recente indagine di D. Caldirola (Welfare comunitario o Casa della Comunità: dal PNRR alla riforma dell’Assistenza Sanitaria Territoriale, 2022) non rimuove infine le “antinomie” più volte rappresentate sulle colonne di QS.

Un Welfare di Comunità disegnato così come è raffigurato dai recenti decreti e dai vari documenti non è un vero Welfare di Comunità, infatti il processo decisionale autonomo a livello territoriale in favore di professionisti e cittadini resta un esercizio manierato senza reali innovazioni strutturali; incombe quasi minaccioso su ogni ipotesi di riordino l’idea della assoluta necessità del Distretto come se fosse un mantra intoccabile; i consorzi, molto più comunitari sia dal punto di vista geografico che relazionale e politico, sono inconfessabili.

Il tema del Welfare di Comunità, le traversie del PNRR, la complessità, la gerarchia, la governance, il volontariato e l’auto-organizzazione nelle Cure Primarie possono rivelare alcuni elementi in comune.

Il volontariato.
L’enfasi post Covid mostrata nei confronti del volontariato sembra ora essersi convintamente incanalata verso un ruolo che vede l’associazionismo civile come soggetto “conveniente” per possibili esternalizzazioni dell’offerta sanitaria al massimo ribasso possibile se non alla gratuità. Tuttavia il coinvolgimento del Terzo Settore avviene, nella maggior parte dei casi, rigorosamente “ex-post” secondo la più classica delle interpretazioni aziendali di governance (altra formula magica) a cui si vorrebbe dare un significato opposto a ciò che è nella realtà delle cose cioè un governo monocratico/oligarchico e verticistico.

Cure Primarie.
E’ eclatante come si perseveri (diabolicamente) nel calcolare la medicina di base come baluardo per gli accessi al PS e per i ricoveri impropri quando questo effetto dovrebbe essere un conseguenza secondaria ad una assistenza primaria che, secondo quanto definito da Wonca (2011-2012-2022), venga esercitata secondo caratteristiche specifiche proprie.

Auto-organizzazione.
Tra le varie ipotesi di riforma l’autonoma organizzazione di professionisti “autori” all’interno di comunità “contenute” (mai superiori ai 30.000 abitanti) può rappresentare uno “strumento chiave” per gestire un sistema complesso come è quello della salute (L’auto-organizzazione quale strumento di gestione della complessità, De Toni, 2021).

Complessità.
Lo stesso E. Morin (2005) ha sostenuto che, in un sistema complesso, le azioni alla fine sfuggono alle volontà di chi le ha generate a causa del meccanismo di autoregolazione o feedback (retroazione) così come avviene anche nelle reazioni biologiche o cellulari (catabolismo, anabolisismo, entropia, entalpia). Il principio della retroazione è fondamentale per comprendere la complessità. Quando manca la consapevolezza dei fenomeni correlati alla complessità non potranno mai essere approfondite le conseguenze che le azioni che insistono su questi stessi sistemi possono avere. Ogni azione può modificare l’evoluzione di un sistema complesso con esiti assolutamente inaspettati tanto che è possibile affermare che non esistono spiegazioni definitive ma solo contestuali.

Le strategie storicamente utilizzate dalle Aziende Sanitarie vengono guidate dagli esiti finali attesi perché l’assistenza di base viene considerata come un sistema semplice e lineare (appropriatezza prescrittiva e di diagnostica strumentale, riduzione degli accessi al PS e dei ricoveri definiti inappropriati, Assistenza Domiciliare Integrata/Programmata ecc.). Se invece l’assistenza viene pensata come un sistema complesso la strategia è ispirata dalle condizioni e dal contesto senza che si possa prevedere o attendere un esito ex-ante.
L’organizzazione gerarchica piramidale monocratica/oligarchica è assolutamente inadeguata per far fronte ai sistemi complessi.

Conclusione (leadership, presidio di riferimento, gerarchia, periferia)
Le Cure Primarie Territoriali richiedono la conoscenza del funzionamento dei sistemi complessi. La strategia organizzativa più adatta sembra essere quella dell’auto-organizzazione territoriale (patti tra professionisti e cittadini/assistiti) senza la presenza di controlli o modelli gerarchici centralizzati ( Ausl, Distretti, Assessorati).

Parafrasando il fisico premio Nobel Philip Warren Anderson (1977) si potrebbe sostenere che l’auto-organizzazione territoriale rappresenta il futuro più affascinante per un SSN in ragione della sua infinita varietà! L’autonomia organizzativa/gestionale richiede da parte dei professionisti impegno, innovazioni, intelligenza anche per esercitare una “self-leadership” vocazionale (Chris Lowney 2005) dove la gestione della responsabilità cliniche, relazionali e sociali crea benessere nei professionisti e nei cittadini. In questo modo si crea un “presidio” contestuale di riferimento per la comunità. Un vero Welfare di Comunità. La cultura del controllo centralizzato (es.: dipendenza dei mmg) non potrà mai risolvere le attuali criticità che aggrediscono le Cure Primarie perché ciò che è necessario è la comprensione della complessità e la soluzione è data dall’autonomia e dall’auto-organizzazione dei professionisti a livello territoriale. La gerarchia non è ineluttabile. Al centro non si risolve. Il futuro è in periferia (De Toni 2021).

Bruno Agnetti
Centro Studi Programmazione Sanitaria (CSPS) di Comunità Solidale Parma ODV

31 luglio 2023
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MMG

Se la pietra non si preoccupa della goccia

Gentile Direttore,
da dove nasce quel malessere immenso, simile ad un insieme di sofferenza e sfiducia totale, che arriva a depredare l’identità di tanti professionisti e dei loro assistiti? Probabilmente la causa è l’enorme ed insanabile distanza cognitiva e fiduciaria che si è accumulata tra le istituzioni che governano i processi decisionali sanitari e i professionisti stessi. Qualcosa si è rotto.

E non può essere incollato da ACN tradizionali, Metaprogetti, DM 77, documenti della Conferenza Stato-regioni o delle Conferenze Territoriali Socio-Sanitarie molto spesso solo monoliti burocratici autoreferenziali. Tutto viene costantemente aggravato dal fatto che il dominio è sempre economico o finanziario e sovrasta ogni possibile argomentazione clinica/assistenziale. Molti medici della generazione dei baby boomer (nata tra il 1945 e il 1964) ha vissuto il periodo dell’economicismo aziendale sanitario (il tanto esaltato risparmio farmaceutico definito “appropriatezza prescrittiva”) con tutte le sue contraddizioni e discriminazioni che alla fine non ha prodotto un effettivo miglioramento della situazione sanitaria. Anzi.

Le testimonianze apparse più volte su QdS sono ormai numerosissime, appassionate e coinvolgenti. In questa occasione si preferisce non citare specificatamente i vari colleghi che hanno scritto “pezzi” indimenticabili proprio perché scordare qualcuno sarebbe imperdonabile.

Lo si sapeva da tempo che sarebbe arrivata. D. Harvey nel 1989 aveva enunciato il concetto della “compressione spazio temporale” come causa e strumento di velocissime modificazioni sociali planetarie (Villaggio globale, McLuhan, 1964).

Molti responsabili istituzionali che avrebbero dovuto prevedere, essere aggiornati, prendere posizione hanno però preferito dormire sonni inoperosi nella convinzione che tutto alla fine avrebbe seguito il solito andamento così come hanno indicato i corsi e ricorsi storici.

Fino a poco tempo fa (nel 1991 nasce del Web) le informazioni, le comunicazioni e la tecnologia arrivavano alle persone con un “flusso” paragonabile al getto d’acqua che esce dal rubinetto del lavello di casa.

Dopo quella data le persone e quindi anche i professionisti sanitari, in pochissimo tempo, si sono trovati immersi, quasi senza accorgersene, in un oceano tecnologico o hanno ricevuto, in tempo reale, un numero di comunicazioni o informazioni paragonabile alla quantità d’acqua trasportata, al secondo, dall’intero bacino del Rio delle Amazzoni.

I professionisti del territorio insieme ai loro assistiti hanno vissuto e stanno operando da “migranti digitali” o da “nativi digitali” all’interno di questa “rivoluzione” che presenta ogni giorno nuove sfide relative anche all’organizzazione sanitaria e all’evoluzione delle partiche orientate alla salute, al benessere e alla salvaguardia della salute.

Gli ambiti territoriali contenuti e comunitari possono essere soluzioni intelligenti e virtuose per le problematiche innestate da questa trasformazione non ancora ben compresa dalle istituzioni sanitarie. La vita quotidiana infatti, senza il contributo di una buona politica, di una scienza affidabile ed amicale e della giusta ed equilibrata tecnologia diventa presto “solitaria, povera, sgradevole, brutale e breve” come ricorda T. Hobbes nel Leviatano. Inoltre il covid ha chiaramente rievocato come la natura può essere spietata e inaspettata. In questo caso le esperienze hanno dimostrato come la così detta “infosfera” abbia contribuito a superare i pericoli mostrati della “biosfera”.

Solo l’ingegno umano e la buona volontà applicate a comunità circoscritte, all’inizio e prima ancora che intervenissero i protocolli istituzionali, sono riuscite a migliorare e salvaguardare il tenore di vita di molti pazienti grazie alla cultura professionale derivante da una informazione che ha superato, in tempo reale, qualsiasi sistema formativo vetusto come l’Educazione Continua in Medicina-ECM. Oggi gran parte dell’ingegnosità dei professionisti è coinvolta, spesso grazie ad iniziative autonome, nel realizzare la trasformazione da un mondo analogico a uno sempre più digitale in favore delle comunità.

La tanto ricercata governance affamata di dati (ormai “gazzilioni” di dati di difficile stoccaggio senza che trovino uno sbocco convinto verso il bene comune) è un ulteriore organo stantio pesantemente condizionato da una miriade di contraddizioni e regressioni politiche di potere per il potere (assessorati, aziende sanitarie, distretti, fusioni in uniche mega aziende).

La società prosegue il suo cammino mentre la sanità resta aggrappa ad istituzioni novecentesche procurando una regressione professionale in possibile progressivo isolamento (punto di non ritorno?).

Alcune date possono aiutare a comprendere cronologicamente come si è arrivati a questo punto:

istituzione del SSN 1978; accordo collettivo nazionale per la medicina generale ACN del 2005; Accordo Regionale E-R 2006 in applicazione dell’ACN; Istituzione della Conferenza Stato-Regioni 1983; istituzione delle Conferenze Territoriali Socio Sanitarie 2013; modifica del Titolo V della costituzione 2021; aziendalizzazione 1992-1993-1999; istituzione di un organo tecnico-scientifico a supporto del Ministero della Salute AGENAS 1993.

A questo punto è assolutamente necessario un “Comitato di Salute Pubblica” accreditato dal Ministro della Salute di poteri straordinari al fine di realizzare la “quarta riforma” in tempi contenuti e definiti in quanto la perizia degli esperti individuati, culturalmente perfettamente autonomi ed indipendenti da possibili conflitti di interesse, hanno le abilità e la caratura deontologica per rispettare il mandato e i tempi.

Il Comitato dovrebbe essere composto da poche persone (massimo 5-8) molto qualificate e meritevoli per curriculum e competenze. Il Ministro della Salute è un componente di diritto e nomina in modo strettamente fiduciario gli altri componenti che devono possedere le seguenti caratteristiche: preparazione medica e sanitaria, esperto in sociologia delle organizzazioni sanitarie, in logica e filosofia della scienza; in bioetica e biotecnologie; in informazione e cultura della comunicazione; in economia sociale e nel terzo settore.

Se la pietra non si preoccupa della goccia che cade…è peggio per la pietra.

Bruno Agnetti

Centro Studi Programmazione Sanitaria (CSPS) FISMU, Emilia Romagna

05 dicembre 2022
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Medicina Territoriale

Per la sanità serve una riforma “epocale”

Gentile Direttore,
nonostante alcune incertezze palesate nei primi momenti, il nuovo Ministro della Salute potrebbe o dovrebbe avere un solo obiettivo: passare alla storia per aver avuto il coraggio di riformare radicalmente la sanità (“quarta riforma”) polverizzando le “peggiori cose” inventate dai suoi predecessori.
E’ palese che mai e poi mai si sente la necessità di un “meccanico”, come ci ha ricordato pochi giorni fa Cavicchi, qui su QS, e ora o mai più occorre uno statista che si dedichi al SSN pubblico anima e corpo.

Il privato (autonomo o convenzionato o accreditato) è già ben radicato ed organizzato in ogni regione italiana tanto che, paradossalmente, nessuna può definirsi effettivamente tenace sostenitrice della sanità pubblica.

E’ quindi fortemente auspicabile che il Ministro della Salute possa agire autonomamente dalle contingenze politiche ed economiche nell’elaborare un nuovo modello culturale-organizzativo con un orizzonte almeno decennale. Dopo i prossimi 10 anni il contesto sociale muterà di nuovo in modo rilevante e il modello di “riforma” dovrà quindi contenere e prevedere una importante flessibilità per reinventarsi.

Nello specifico le riflessioni rivolte alle cure primarie, al territorio e all’insieme degli attori di quello che viene oggi indicato come ambito delle PHC (Primary Health Care) devono superare un dualismo H-T (Ospedale-Territorio) che concettualmente non ha senso (se non dal punto di vista normativo-contrattuale) perché l’ospedale è comunque inserito in un territorio e il territorio stesso (che anch’esso contiene professionalità, discipline e settori con differenti accordi e regolamentazioni) ha generalmente un ospedale di riferimento.

La situazione (osservata dal punto di vista degli assistiti, del terzo settore e dei professionisti) è effettivamente spaventosa e l’intolleranza sociale è in procinto di esplodere. Negare la realtà sarebbe un atteggiamento suicida.

La via di uscita obbligata è proprio un rifacimento innovativo e drastico che prima di tutto modifichi sostanzialmente i presupposti filosofici, epistemologici e paradigmatici al fine risanare il campo di lavoro dalle infinità di contraddizioni minime, piccole o enormi che hanno caratterizzata la regressione professionale ed assistenziale in questi anni. Il relativismo, il pensiero unico e debole, una errata interpretazione della globalizzazione hanno poi esasperato le criticità.

Le inevitabili incrostazioni create da una abitudine consolidata di “potere” rischia di creare assolutismi autocratici animosi.
Solo imprenditori, capitani di vere aziende, del calibro di Peter Thiel (PayPal, Plantir, Founders Fund, SpaceX, Airbnb, Spotify… ) sono in grado investire in persone intelligenti che sappiano risolvere problemi difficili, anche in ambito medico, cambiando i ruoli dirigenziali ogni 60 giorni per non dare atto all’effetto dell’abituazione e alle sue conseguenze relazionali negative.

Un “Comitato di Salute Pubblica”, sempre auspicato da Cavicchi, appare vitale. Il numero dei componenti di questo collegio dovrebbe essere significativamente contenuto e non dovrebbe avere nessuna attinenza con chi, in questi 40 anni, ha gestito il processo decisionale o sia stato coinvolto nelle scelte sanitarie (burocrazie ministeriali, agenzie, consulenti accademici, alte dirigenze AUSL, assessorati regionali, conferenza stato regioni nella componente sanitaria…). In caso contrario si assisterà alla riproposizione delle solite finte soluzioni di interesse solo amministrativo che affosseranno definitivamente il SSN pubblico (“forfait”).

Nelle ipotizzate riunioni collegiali paritarie devono trovare voce solo persone che sappiano ricercare e costruire, in un tempo definito, una nuova ed intelligente “compossibilità” tra le problematiche economiche e quelle sanitarie. I componenti il comitato devono essere in grado di dare origine ad una reciprocazione pattizia tra servizi sanitari e cittadini all’interno di concetti maturati da tempo nella comunità scientifica che in questi anni si è occupata di organizzazione territoriale sanitaria: “impareggiabilità” della professione, medico “autore”, autonomia di impresa nel processo decisionale e nel governo clinico, abolizione delle AUSL, partecipazione decisionale effettiva delle comunità di cittadini e delle associazioni dedicate ( mission statutaria).

E’ di tutta evidenza che per ottenere una operatività efficace (ma anche estremamente meno costosa dell’organizzazione attuale) le dimensioni territoriali adeguate dovrebbero aggirarsi intorno a parametri di un quartiere cittadino o ad un area extraurbana/rurale corrispondente).

Molti professionisti delle cure primarie hanno sperimentato, in alcune regioni, dal 2005 a tutt’oggi, la progressiva pervasività della medicina amministrata aggravata da un grossolano abuso di algoritmi (per altro sempre più sofisticati) circolari, normative e protocolli orientati ad una enorme raccolta di dati per altro non ancora compresi ed utilizzati disastrosamente dalle tecnocrazie monocratiche per tornaconti sfortunati. Molto presto, entro 10 anni, l’intelligenza artificiale e gli algoritmi saranno in grado addirittura di produrre, automaticamente, ulteriori algoritmi “dopanti” che si adatteranno in modo parassitario ad ogni singolo paziente e ai professionisti.

Tutto ciò comunque non riuscirà a risolvere la problematica della complessità della persona in quanto l’Intelligenza Artificiale è un determinismo meccanico che ripete sempre e comunque schemi pur avanzati ma senza qualità. Non sa darsi un fine ma manifesta solo una funzionalità: non parla, non dice ma soprattutto non spiega. Funziona solamente. Il computer si può accendere o spegnere. Nelle persone l’interruzione della coscienza si chiama morte.

La qualità sta nella cura e nel prendersi cura in quanto la fragilità/vulnerabilità e la reciproca dipendenza è ontologica, unifica tutte le persone rivelando chiaramente la mancanza di sovranità sull’esistenza da parte dell’uomo e ancor di più da parte delle istituzioni meccanicistiche. La complessa relazione di cura è una necessità ineludibile che ci ha accompagna per tutto il tempo della vita essendo viventi “prorogati” di momento in momento.

Gli sviluppi tecnologici attuali e prossimi venturi funzioneranno finchè sono accesi ma non corrispondono a nessun sviluppo scientifico relativo allo spiegare e al conoscere millantando pretese di oggettività nelle relazioni di causalità. L’evoluzione dei sistemi complessi e la fisica quantistica sanciscono la provvisorietà delle teorie scientifiche e riconoscono il carattere problematico della conoscenza.

Recenti documenti come l’ACN, il Metaprogetto, il DM 77, le comunicazioni della Conferenza stato regioni continuano a perseverare in modo diabolico negli errori di comunicazione e nelle determinazioni calate in modo lineare dall’alto a fronte di una realtà assistenziale sempre più complessa.

Una riforma coerente, contestuale e coraggiosa nella considerazione della complessità della cura e del prendersi cura può invece rappresentare per la sanità pubblica un evento pari alla scoperta di un farmaco contro il cancro o ad uno sbarco sulla luna.

Bruno Agnetti
Centro Studi Programmazione Sanitaria (CSPS) FISMU, Emilia Romagna

22 novembre 2022
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Patto contratto sanità

L’isola che non c’è

L’isola che non c’è

21 OTT -

Gentile Direttore,
l’encomiabile contributo del collega Luigi Di Candido, pur non analizzando i temi generali che possono essere alla base di una riforma radicale della sanità soprattutto territoriale pone comunque una consistente pietra angolare alle fondamenta per ristrutturare l’intero SSN.

Nel  passato pare che qualche AUSL,  nella ridondante  stagione dell’aziendalizzazione generata dalla nota modifica del Titolo V, abbia addirittura tentato di iscriversi all’Unione Industriali del territorio di appartenenza ma questa avventura  sembra non essere andata a buon fine.  In effetti, osservando i numeri e anche la logistica di quelle organizzazioni che oggigiorno, in modo barocco, continuano ad essere definite aziende sanitarie hanno migliaia di dipendenti e sono tra i pochissimi enti che hanno il vantaggio di trovarsi all’interno dell’abitato delle nostre città.

Una datata ricerca sul clima organizzativo ed il benessere aziendale (“I medici bocciano i dirigenti”, il Sole 24OreSanità, 1-7 aprile 2008) conferma, in tempi non sospetti, le condizioni snocciolate dalle “ipotesi” percentuali  del collega  Di Candido che conclude il suo intervento chiedendosi  se queste istituzioni sono o non sono aziende. La domanda è palesemente retorica e la risposta è solo una.  Tuttavia le normative attuali, la riforma del titolo V e la creazione di numerosi Servizi Sanitari Regionali non permettono nessun cambiamento ma solo toppe che tradizionalmente sono sempre peggio del buco.

Il collega cita il management, l’aziendalismo, il linguaggio economicistico e la  governance  termini  tanto cari ai proseliti che  difendono questa cultura come depositaria  del vero ( lean, six sigma, total quality System, Value based procurement, H.T.A.)  a cui andrebbero aggiunti: policy maker, medicina on demand (che volgarità!) che deve assolutamente e completamente essere sostituita con la medicina di iniziativa,  AFT (che si rifanno alla datata e ancora vigente Legge Balduzzi), big data, back office, CRM (Customer Relation Management), patient joumey, CdC ( Case della Comunità o della Salute) e OSCO ( ospedali di comunità in contraddizione con la loro stessa definizione e che dovrebbero essere indicati come Ospedali di Distretto secondo quanto emerge dal DM77), service design, consultant, digital first, COT, UCA…

Inevitabilmente sarà necessario imparare, come già fatto nel passato, questo “relativamente nuovo” linguaggio (in attesa che qualcosa d’altro, ma di radicale, possa accadere) proprio perché le così dette “nuove” normative ( ACN, DM77, Metaprogetto, Circolare della Conferenza Stato-Regioni…) promettono una  “stagione  interessante e generativa per il top e middle management delle regioni e delle aziende” che però,  come dimostrato dall’articolo del collega… non esistono.  Nasce spontaneo il quesito di cosa “prometteranno” le innovazioni  lessicali pesantemente controriformiste  ai cittadini e ai professionisti. Non conoscere la terminologia  burocratico “trendy” potrebbe creare frustrazione ed isolamento nei sistemi di decisione apparentemente molto complessi a causa di un continuo “rifornimento”  per i piani alti di parole magiche inedite. Risalta sotto tutti i suoi aspetti una contraddizione paradossale non facilmente risolvibile: convivere ed operare (da anni ed anni) con enti “inesistenti”  significa, come ripete da tanto tempo un nostro notissimo “autore”,  generare contraddizioni su contraddizioni in sanità  fenomeno che inevitabilmente crea una regressione professionale tale che probabilmente fa  toccare  ormai il suo temuto punto di non ritorno…

Una possibile “quasi riforma radicale” per le PHC (Primary Health Care) cioè per le cure territoriali  è stata presentata al convegno/evento “Sopravvivere per vivere: cosa abbiamo imparato dall’esperienza Covid. Prospettive future” celebrato il 24 settembre 2022 a Verona e di cui ha parlato anche QS il 3 ottobre scorso.

La “quasi riforma radicale” descritta  tiene conto di  tre elementi fondamentali pur ostacolata  delle normative vigenti e  legislativamente “cogenti” (Titolo V, Aziendalizzazione, SSR, Conferenza Stato-regioni, sanità amministrata …):

  • una posizione di discontinuità alternativa per le  Alte Dirigenze Ausl e gli Assessorati Regionali  con  funzioni di garanzia o di authority  dei valori fondamentali del SSN;
  • il ritorno ad un SSN unico ed unitario con una posizione di convenzionamento in libera professione  e libera scelta per  i mmg;
  • una completa autonomia  periferica territoriale  anche  gestionale ed economica dell’insieme degli attori socio-sanitari che operano sul territorio ( medici, infermieri, specialisti,  servizi di riabilitazione psico-neuro-motori innovativi, servizi territoriali, servizi sociali, servizi educativi,  servizi socio sanitari, componenti del terzo settore, imprese generatrici..),  dei percorsi collegati anche con i servizi ospedalieri, dell’intero processo decisionale e del governo clinico agevolati da una guida “di servizio” denominata provvisoriamente “collegio del territorio” che comprende eventualmente un  ricollocamento di risorse umane di AUSL e Assessorati nelle varie aggregazioni territoriali di AFT o di NCP.

Bruno Agnetti

CSPS (Centro Studi Programmazione Sanitaria)
FISMU (Federazione Italiana Sindacale Medici Uniti), Regione Emilia Romagna


Medicina Territoriale

Altri indizi della privatizzazione della sanità

Quotidiano on line di informazione sanitaria

Giovedì 07 LUGLIO 2022

 

 

 

 

 

Bruno Agnetti

 

Gentile Direttore,

vorrei lanciare ai colleghi un messaggio positivo relativo alle così dette “riforme” che interessano le cure primarie (PNRR, ACN, DM 77, documenti ministeriali e di agenzie varie, interventi di opinionisti “solerti apologeti” dello status quo…ante). Purtroppo non ho nessun comunicazione positiva.

Di conseguenza però si crea un aumento del numero di indizi a riprova di una deriva verso una privatizzazione della sanità anche a livello territoriale. La stessa trasmissione Rai “Report” del 20 giugno 2022 ha ampiamente dimostrato come ci si stia orientando verso la collaborazione con professionisti in “affitto” e come le regioni non siano state in grado di utilizzare i considerevoli fondi (certi) del Decreto Ministeriale del 2020 per la verità destinati alle terapie intensive, ai letti di sub-intensiva, alle autoambulanze e ai Pronti Soccorsi.

Tuttavia una visione non manichea caratteristica di alcune elaborazioni culturali specifiche relative al riordino delle Cure Primarie (Welfare di Comunità) non distingue territorio ed ospedale in quanto il territorio ha un suo ospedale di riferimento e lo stesso ospedale è all’interno di un territorio e le due entità si influenzano continuamente e reciprocamente.

C’è poi da sperare che il PNRR non faccia la fine del Finanziamento Ministeriale del 2020 o peggio e che non venga prosciugato delle continue e ripetute emergenze che richiedono comunque aiuti economici.

I fenomeni contemporanei che hanno modificato il mondo non permettono ancora di poter intravedere cosa ne sarà della nostra società. Tuttavia gli obiettivi aziendali, anche durante la prima fase covid, hanno ricercato con un impegno straordinario il così detto “accorpamento o fusione” aziendale (es.: AUSL con Azienda Ospedaliera-Universitaria) con molta probabilità considerata come la soluzione (politica ed economica) dei problemi della Sanità Italiana e del SSN.

Alcune teorizzazioni relative a queste unioni aziendali partono dagli anni 80 (USA) o 90 (Inghilterra e Italia) e trovano la loro realizzazione nel 2022. Ciò potrebbe rappresentare una criticità in quanto queste iniziative potrebbero essere vissute come estranee al contesto o apparire superate ancora prima di nascere.

A supporto degli indizi del Prof. Ivan Cavicchi va evidenziato che le dichiarazioni rilasciate in favore di questa “innovazione” fanno frequentemente riferimento alla necessità di una stretta collaborazione con il privato accreditato.

Più che una novità sembra un tentativo di dare senso ai modelli amministrativi calati dall’alto (controriforme?) che potrebbero apparire ai cittadini come elementi separati dalla loro vita quotidiana. Le suddette vie di politica sanitaria adottate per si basano, per altro, su assunzioni teoriche riguardo agli specifici effetti delle “fusioni aziendali” che non sono ancora state completamente confermate o smentite dall’evidenza empirica.

Altro fenomeno che potrebbe andare ad arricchire il numero di indizi riguarda la sensazione che (sempre in conseguenza delle politiche straordinarie come il PNRR), improvvisamente gli assessorati o le deleghe alla sanità delle Amministrazioni Comunali, le Alte Dirigenze delle aziende “Uniche” e gli Assessorati Regionali stiano diventando cariche amministrative ancora più importanti. In passato il ruolo dell’Assessore alla Sanità e al Welfare di una Amministrazione Comunale era di gran lunga superato, come importanza, dall’Assessorato all’urbanistica o similari.

Oggi la situazione appare capovolta. Chissà che un ruolo così particolare ed “impareggiabile” non riesca a fare emergere l’interesse per il bene comune e per le comunità all’interno di un consesso politico-amministrativo.

Il tempo, che come si sa è galantuomo, permetterà di valutare se alcune iniziative in atto saranno riforme o si dimostreranno rovinose controriforme. E’ di tutta evidenza che il merito e il metodo di alcuni di questi processi tradiscano possibili pregiudizi contro i medici e manifestino simpatie preferenziali per altre professioni.

E’ possibile fare politica sanitaria con i pregiudizi?

Non credo che una complessità simile alla sanità e l’organizzazione territoriale delle Cure Primarie possa meritare conduzioni pregiudiziali pena il completo fallimento dell’assistenza di primo livello.

Fondamentale, necessario, vitale, una vera ultima spiaggia per la medicina generale è una crescita tangibile di fiducia e rispetto reciproco tra Alte Dirigenze completamente rinnovate e Professionisti/Operatori al fine di agevolare le visioni derivanti da maggiori e diverse complessità che richiedono forte autonomia.

La necessità che qualche cosa debba cambiare strutturalmente e radicalmente è indubbio.

Sulla carenza di visioni etiche sono stati versati fiumi di inchiostro ma oggi si può aggiungere che nei decisori della politica sanitaria sembra alquanto carente la presenza di una poetica ingegnosa capace di creare dal nulla utopie e quindi idee e concetti. Magari si potesse ascoltare un concerto di concetti esaltanti, concerti di concetti innovativi, rivoluzionari, straordinari.

Se alcuni noti commentatori esperti sulla valutazione degli indizi dichiarano di avere le prove di una deriva del SSN verso la privatizzazione e di non farsi più illusioni sulla sanità pubblica in Italia c’è molto da meditare. Ogni giorno di più e ad ogni documento ufficiale che viene pubblicato diventa sempre più faticoso intellettualmente e operativamente salvare la sanità territoriale che evidentemente non vuol dire “salva con nome” sul computer.

Bruno Agnetti

Centro Studi Programmazione Sanitaria (CSPS) FISMU, Emilia Romagna

07 luglio 2022 © Riproduzione riservata


Medicina Territoriale

Sviluppo dell'accorpamento (fusione) delle aziende sanitarie (AUSL e AO-U)

Recentemente la stampa locale ha diffuso la notizia che dal 1 gennaio 2023 anche a Parma l’azienda AUSL e L’azienda Ospedaliera -Universitaria diventeranno una sola azienda.  Un “gigante” da 8.000 dipendenti senza contare l’indotto.

Un’unica grandissima azienda con la sede all’interno della città che influisce profondamente sulla vita delle persone perché, pur essendo una azienda, si occupa del prendersi cura delle persone, dei loro familiari e del contesto intero entro il quale questi ammalati o persone si muovono.

E’ già capitato di presentare la teorizzazione dell’atteggiamento di cura, del curare, del prendersi cura, di chiedere aiuto, di accettare l’aiuto come un elemento caratteristico dell’essere umano. La pandemia da Covid (come tutte le epidemie storiche) ci ha costretto a riflettere sulla “essenza” del vivere (dipendenza di tutti le persone dalle cure). Veniamo tutti da un dove che non conosciamo e che non dipende da noi e lasceremo la nostra esistenza quando verrà deciso per noi (mancanza di sovranità sull’esistenza umana). Questa struttura propria ed immutabile è connaturata con la nostra esistenza.

Non sappiamo ancora che modificazioni subirà il processo di globalizzazione a fronte del lunghissimo elenco di criticità (pandemia, guerra, crisi energetica, inflazione/deflazione, manifestazioni sociali…) che insidiano il fenomeno che conosciamo come “globalizzazione” e come si ricomporrà nel tempo.

Vale la pena forse ricordare come le teorie relative alle unioni delle aziende sanitarie, come argomentazioni diffuse sulla letteratura di settore, partono addirittura negli anni ’80 negli Stati Uniti e negli anni ’90 in Inghilterra in piena florida globalizzazione. In Italia questo movimento (che ha già coinvolto numerose aziende sul territorio nazionale) di “accorpamento” parte verso la fine degli anni 90 e sta evidentemente proseguendo celermente per completare le condizioni giuridiche e normative fino ad arrivare ad una definitiva Legge Regionale.  Il mandato regionale sulla fusione aziendale ha proseguito anche durante tutte le fasi della pandemia come obiettivo delle Alte Dirigenze.  Siamo stati informati che questo processo ha coinvolto numerose figure professionali nella fase di studio e di progettazione. I professionisti e i tecnici, riuniti in gruppi di studio ad hoc, senza ombra di dubbio, avranno avuto la possibilità di analizzare il contesto attuale contemporaneo a fronte degli iniziali disegni progettuali degli anni 80’ e ’90.

Il processo di contestualizzazione probabilmente non presenta modelli stratificati o linee guida di evidenza in quanto proprio in questo ultimo periodo, dal 2020 a tutt’oggi, gli avvenimenti mondiali si sono complicati non poco e sembrano avere modificato profondamente lo stato delle cose.

Attualmente, in città, sembrano già integrati alcuni uffici tecnici-amministrativi. Dal punto di vista clinico pare che l’unico dipartimento attualmente integrato AUSL-AO/U sia il DAISMDP (Dipartimento Assistenziale Integrato Salute Mentale e Dipendenze Patologiche).  Il fatto che alcune teorizzazioni o ipotesi relative agli anni 80 o 90 trovano la loro realizzazione nel 2022 potrebbe presentare la criticità o il rischio corrano di risultare estranee al contesto e apparire superate ancora prima di nascere.

Un esempio locale del pericolo di scarsa valutazione della contingenza è stata la Deliberazione Della Giunta Comunale n. 465 del 29/12/2021 con la quale si stabiliva, anche su richiesta della Conferenza Territoriale Socio-Sanitaria, di concedere una area del parco di via Verona (detto dei Vecchi Mulini) per l’ampliamento della “Casa della Salute” (oggi Casa della Comunità) del quartiere San Leonardo per permettere all’AUSL di accedere ai fondi del PNRR e di partecipare ai bandi correlati per realizzare detti interventi.

Una    analisi     sanitaria, sociale   ed antropologica del contesto avrebbe potuto dimostrare   apertamente    l’inadeguatezza    logistica    di     questa     delibera    che    doveva prendere in  considerazione     una    struttura molto grande o hub, come si dice ora, con tutti i servizi territoriali   connessi    alle cure Primarie previsti compreso l’ospedale di comunità per essere coerente con il quartiere che dovrebbe servire.

Non resta   che   augurarsi che la nuova Amministrazione Comunale in accordo con l’Azienda Sanitaria   o    Socio-Sanitaria “Unica” possano   rivedere   in modo radicale i contenuti della delibera stessa. Potrebbe    essere    l’occasione per poter sperimentare effettivamente un Welfare di   Comunità   come   proposto da anni dalle Associazioni di Volontariato di questo territorio ed in particolare della Comunità Solidale Parma che da molti anni ha sviluppato un disegno progettuale di Casa della Salute/Comunità coerente con i bisogni sanitari e sociali del quartiere. Una esperienza che potrebbe diventare pilota o di riferimento anche per le future decisioni sanitarie che numerosi sindaci della nostra provincia potrebbero dover affrontare (vedi Guida alla Casa della Salute/Comunità, Lennesima Editore 2022, info@lenservice.it,).

Le principali motivazioni (presenti in letteratura) che spingono in favore dei processi di fusione aziendale sono di tipo politico ed economico. Occorre tenere sempre presente che questi approfondimenti si riferiscono ad un momento precedente alla situazione di crisi e smarrimento di questo periodo. Dal punto di vista strettamente economico si possono raggiungere economie che gli esperti chiamano “di scala” e di “scopo”. I servizi forniti potrebbero annullare duplicazioni. La competenza clinica e professionale potrebbe riceverne dei benefici in quanto un aumento dei volumi dei “casi” può influire sull’efficacia e sull’efficienza di un servizio e dei suoi professionisti (formazione, pubblicazioni, carriera, attrattività, fidelizzazione).

Politicamente l’idea dell’accorpamento e dell’incremento dell’eccellenza prestazionale ha semplificato le procedure delle strutture più piccole (quanto ci sono mancate nel periodo Covid!) e forse incrementare il potere contrattuale dell’Azienda unificata nei confronti dell’Assessorato Regionale.  L’organizzazione composta da più risorse umane e materiali può essere sistemata al fine di far fronte a sfide anche inattese perché si pensa che l’Azienda Unica possa “sempre” fornire servizi di maggiore qualità. È comunque ben manifesto che questa prerogativa di miglioria non possa fare a meno del privato accreditato.

Gli studi che hanno tentato di analizzare le evidenze degli accorpamenti hanno affrontato (in periodo pre-covid) le aree degli esiti clinici, dei processi, della performance finanziaria/produttività).

Non sono emerse differenze macroscopiche su alcuni parametri clinici (indici di mortalità ospedaliera; dimissione entro le 48 ore dei nuovi nati; esiti infausti post infarto a 30 giorni).  Criticità aumentate riguardano l’aumento della mortalità a 30 giorni per ictus; riammissioni a28 giorni per ictus, a 90 giorni per infarto.

Il processo relativo ai tempi di attesa ha mostrato un tempo superiore a 180 giorni come media. Sono inoltre aumentate le spese del personale e tempo determinato e del management. Diminuisce significativamente invece il totale dei ricoveri, il personale, i posti letto. Si riduce anche la spesa totale senza modificare la produttività.

L’area delle relazioni tra popolazione e cure primarie (efficacia clinica, efficacia preventiva, gradimento dei pazienti, accessibilità, performance finanziaria, coinvolgimento dei dipendenti) non ha evidenziato nessun risultato statisticamente significativo tra strutture accorpate e non accorpate.  In relazione alla popolazione di riferimento solo due indicatori sui 23 indagati hanno mostrato una maggiore probabilità di innovazioni nei servizi di assistenza primaria e di assistenza intermedia (oggi si indicherebbero come hospice, letti osservazionali, Ospedali di Comunità).

C’è un’area indagata che mette in relazione documenti ufficiali pubblicamente accessibili e possibili motivazioni non palesemente dichiarate.  Le comunicazioni pubbliche sostengono di voler investire in attività specialistiche, garantire lo sviluppo dei servizi e la qualità, migliorare le condizioni e le carriere del personale, influire in modo fortemente positivo sulle cure primarie. Le ragioni non pubblicamente esplicitate riguardano la creazione di nuovi ruoli gerarchici, la particolare attenzione all’economicismo, la risposta alle così dette “lobby di stakeholder” cioè un coinvolgimento sempre più benefico con il privato accreditato o con i professionisti “in affitto” (Programma Rai REPORT del 20 giugno 2022).

L’ultima area osservata è stata quella relativa alla percezione e soddisfazione del personale. Da una parte  si  rileva  un apparente aumento dell’autonomia  dei professionisti che possono intervenire nei processi decisionali di innovazione e cambiamento ma  si percepisce anche un peggioramento nell’erogazione  dei servizi a danno dei pazienti; differenziazioni se non discriminazioni nella cultura organizzativa  tra i vari team o gruppi; una perdita di controllo  sulle direzioni strategiche  o su attività quotidiane con accumulo di ritardi  a causa della distanza che si viene a creare tra  professionisti e management; stress dovuto ai cambiamenti, incertezze, aumento del carico di lavoro, percezione di essere stato “acquisito” all’interno di una organizzazione preesistente e più forte.

Conclusioni.

Non vi sono ancora evidenze solide sulle fusioni aziendali e nello stesso tempo i dati contrastanti sottolineano come non possa esistere un automatismo tra l’aumento delle dimensioni di una maxi azienda e i miglioramenti nelle performance o nelle economie e quindi l’accorpamento non è una condizione necessaria e sufficiente per costruire super aziende.

Oltre alle fusioni possono esserci modelli alternativi?

Sembrerebbero esserci ma occorrerebbe oggettivamente sperimentarli attraverso una precisa conoscenza di questi stessi modelli che passano attraverso processi decisionali territoriali fortemente autonomi e che considerano tutto il processo decisionale innovativo a carico della comunità: ideazione, progettazione, realizzazione, sperimentazione, stabilizzazione, rendicontazione. In pratica un Welfare di Comunità non calato dall’alto ma adattato a misura di ogni singola… comunità.  Forse al posto di accorpamenti o fusioni (che potrebbero anche starci a livello tecnico-amministrativo) sarebbero più attuali federazioni di tante piccole realtà autonome, sufficienti e necessarie per creare reti funzionali e operative di assistenza (entro una AFT con un referente che collabora con tutte le professionalità) co-operanti per un prendersi cura di alta qualità, portatrice di una continuità che riduce la frammentazione e favorisce, per forza di area geografica, la prossimità. Un team di questo tipo può sviluppare una programmazione   assistenziale individualizzata sia nell’ambulatorio che al domicilio. Può co-operare con personale e professionisti appartenenti a organizzazione o a forme contrattuali diverse (che possono anche operare in uno stesso spazio fisico per ottimizzare la propria offerta assistenziale sia per i deambulanti che per la domiciliarità). Il gruppo o il team può innovare e progettare molti percorsi assistenziali integrati (eventualmente coinvolgendo anche il privato accreditato…)  e sviluppa una cultura ed una identità multiprofessionale e multidisciplinare.

Con il modello del Welfare di Comunità la dimensione organizzativa (es.: sul territorio 20-25 mmg per un bacino di utenza di circa 35.000-45.000 mila persone cioè un quartiere grande) non crea distanze tra vertice strategico e linee operative e non richiede ulteriori ruoli gerarchici.

Il tempo, che come si sa è galantuomo, permetterà di valutare gli accorpamenti e le fusioni saranno riforme o controriforme.  Prima di ogni altro passaggio sarebbe però necessario   un accorpamento o meglio promuovere una condivisione culturale (oltre che tecnico- amministrativo) che consenta una crescita tangibile di fiducia e rispetto reciproco tra alte dirigenze e professionisti/operatori al fine di comprendere e agevolare le visioni derivanti da maggiori e diverse complessità.

(vedi video https://lenservice-my.sharepoint.com/:v:/g/personal/christopher_gruppolen_it/Ecks-tPbf1tDpZ30hnFEWLQBYCpqfgahJXO_A9ZBQD1H7A?e=6HJndH)

 

Bruno Agnetti
Medico