L’insostenibile fragilità dell’Atto di indirizzo sulle Case di Comunità

20 MAG - Gentile Direttore,

da circa due mesi si è conclusa la “consultazione pubblica” sull’Atto di Indirizzo Agenas (tramite compilazione di un questionario) sul tema della partecipazione/co-produzione nell’ambito delle Case della Comunità. Il documento è stato redatto da un gruppo di studio composto da rappresentanti delle Regioni e da professionisti definiti esperti sul tema della partecipazione di pazienti e cittadini alle questioni sanitarie.

Storicamente gli Atti di Indirizzo indicano, in modo piuttosto potestativo, il comportamento normativo desiderato dalle istituzioni. L’elaborato articola quali debbano essere i passaggi di partecipazione e co-produzione che Regioni, Aziende e Distretti metteranno in atto. A dispetto delle intenzioni quindi nulla di nuovo. La piramide gerarchica sanitaria resta saldamente inalterata così come sarà la valutazione finale della potentissima Conferenza Stato-Regioni.

E’ noto che i documenti ufficiali europei (es.: Piano di ripresa NextGenerationEU ) disegnano strumenti finanziari (in buona parte prestiti pluriennali). Ogni nazione ha poi concepito propri Piani Nazionali (PNRR) con i quali definisce l’utilizzo dei contributi straordinari europei (post-covid) per il periodo che va dal 2021 al 2026. Nessun documento europeo specifica che una azione di ammodernamento sanitario (es.: territoriale) debba realizzarsi con le Case della Comunità. Lo stesso Piano Nazionale (PNRR) indica la necessità di attivare iniziative in grado di promuovere “strutture di prossimità” per quanto riguarda le cure primarie e cita, solo come esempio, le Case di Comunità ma non esclude nessun’altra formalità.

Successivamente al Piano di ripresa NextGenerationEU e al PNRR sono sati pubblicati il DM77/2022 (regolamento recante la definizione di modelli e standard per lo sviluppo dell'assistenza territoriale nel SSN), il Metaprogetto, documentazioni varie di gruppi e di istituzioni locali. Per quanto riguarda il così detto territorio, le argomentazioni si sono polarizzate sul concetto di comunità (es.: Case della Comunità, Ospedali di Comunità). I criteri, “sui generis”, dettati dal “regolamento”, sono rigorosamente aderenti alle necessità Regionali, Aziendali e Distrettuali e potrebbero non coincidere con bisogni professionali o assistenziali. Questi parametri sono di difficile comprensione culturale se si considera la liquidità delle collettività e il desiderio, espresso dalle persone di buona volontà, di ripensare alla complessa preparazione del terreno per favorire nuove germinazioni comunitarie. Se la comunità non c’è più, così come non esistono le collettività, come è possibile seguire una programmazione che manca di solidi presupposti? Nel recente passato qualche timido tentativo di ricostruire, faticosamente, un delicato tessuto comunitario è stato misconosciuto dai rappresentanti istituzionali. Come è possibile che ora le stesse Alte Dirigenze, per normativa, diventino sensibili ad aspetti sociali/sanitari complessi quando le culture dominanti amministrative sono neoliberali, economicistiche, aziendalistiche e lineari?

In una società riconosciuta da molti studiosi come liquida occorre molta preparazione per riconoscere e valorizzare piccole formazioni comunitarie che sono riuscite, miracolosamente, a sopravvivere alla globalizzazione. Taluni rappresentanti istituzionali hanno dimostrato inadeguatezza verso questi riconoscimenti mentre le mappe e i profili territoriali (non solo relativi all’appropriatezza/risparmio prescrittivo) avrebbero dovuto essere un patrimonio fondamentale per le Aziende. Alcune preziose progettualità e risorse sono state bellamente ignorate determinando così l’esaurimento di esperienze di co-operazioni volontariato/cittadini/professionisti storiche. Se fosse capitato qualche cosa di simile nelle aziende condotte da Olivetti o da Mattei o da Ford avrebbero comportato parecchi licenziamenti.

Un concreto processo di partecipazione (e/o di co-produzione) avrebbe dovuto comprendere il principio di un completo coinvolgimento nel processo decisionale dall’inizio alla fine. Tuttavia la cascata normativa burocratica non ha contemplato questa ipotesi così che, ora, occorre rincorrere determinazioni già decretate up-down.

Infatti, nel testo dell’Atto di Indirizzo, si nomina "l’utilizzabilità” (disponibilità?) delle così dette modalità di partecipazione che verosimilmente saranno poste al giudizio delle stesse Alte Dirigenze Regionali, Aziendali, Distrettuali. La programmazione e il governo della “produzione” Aziendale presenta una certa “complicazione” lineare che richiama suggestioni relative alla globalizzazione, ad orientamenti neoliberali, al consumismo sanitario di origine aziendale (consuetudini conosciativistiche?) causa di differenziazioni (discriminazioni?) professionali e assistenziali. Ogni argomentazione sulla partecipazione non può esimersi dal considerare queste criticità. E’ necessaria, come l’aria, una assoluta trasparenza e la capacità di riconoscere ruoli non tanto di partenariato ma di leadership. In caso contrario tutto diventerà ancora più confuso ed ambiguo. Meraviglia come nel testo non si nomini mai la libera scelta fiduciaria del mmg come strumento fondamentale (sovrapponibile ad una elezione politica/apartitica) per tentare di ricostruire una identità condivisa territoriale e si preferisca citare il consenso informato che è un dispositivo di credito informativo, più attinente alla specialistica/dirigenza/dipendenza, per nulla commensurabile con la libera scelta fiduciaria. All’interno di questo rapporto ci si relaziona, (es.: in team) più con persone e problemi che con malattie o patologie specifiche come invece può avvenire a livello ospedaliero ( es.: équipe chirurgica).

Nell’interessante e lungo elenco bibliografico, riportato alla fine del documento, si richiamano pubblicazioni del periodo pre-covid, che ragionano da Case della Salute (le Case della Comunità sono effettivamente una miglioria nei confronti dei contenuti relativi alle Case della Salute?). Si può altresì notare una ostinata ricerca di modelli esteri senza che vi sia una validata sovrapponibilità operativa di quegli esempi con la nostra eterogenea realtà nazionale già considerata, a suo tempo, una delle migliori organizzazioni sanitarie al mondo.

Bruno Agnetti

Centro Studi Programmazione Sanitaria (CSPS) di Comunità Solidale Parma ODV-Runts

20 maggio 2024

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case della salute

Dotazioni infrastrutturali e Case della Comunità

08 MAG - Gentile Direttore,
come Centro Studi di Programmazione Sanitaria (CSPS) composto da cittadini dell’Associazione di Volontariato Comunità Solidale Parma (ODV-Runts) ci occupiamo in particolare di sostenere e proteggere le cure primarie di quartiere considerate bene comune per una comunità. Abbiamo letto con molta curiosità l’intervento che il Prof. Ivan Cavicchi ha pubblicato su QdS (Le dotazioni infrastrutturali? Sono il cuore della “quarta riforma”, ma è ciò che manca nella maggior parte delle proposte in circolazione) il 30 aprile 2024. CSPS ha considerato utile interrogare direttamente il Prof. Cavicchi per sapere cosa si debba intendere per “dotazioni infrastrutturali” e, con il permesso dello stesso Prof. Cavicchi, riteniamo possa essere utile rendere pubblico il carteggio intercorso in favore di qualche collega interessato al tema.

“Il concetto di infrastruttura, in urbanistica vuol dire “servizi di servizi” cioè strutture secondarie o complementari al servizio di strutture primarie finalizzate per il raggiungimento di certi scopi.  Per esempio l’ospedale è una struttura pensata per ricoverare i malati essa tuttavia, per curare i malati ricoverati , ha bisogno di certe infrastrutture senza le quali la sua funzione sarebbe impossibile da svolgere.
In logica “struttura” è un concetto del “primo ordine” , quello che in sanità stabilisce i caratteri di base dei servizi mentre “infrastruttura” o “sovrastruttura” è un concetto del “secondo ordine” cioè è l’insieme di regole senza il quale l’ospedale come struttura non potrebbe funzionare.
Quindi il problema è semplice:
• non si può avere in sanità una struttura senza sovrastruttura
• se si vuole in sanità cambiare una struttura bisogna cambiare la sovrastruttura e/o l’infrastruttura
• qualsiasi cambiamento di una struttura a sovrastruttura/infrastruttura invariante è fallace cioè è un cambiamento farlocco.
Come ho già scritto (QS 6 maggio 2021) le Case di Comunità previste dal PNRR (missione 5) sono un cambiamento farlocco perché ripropongono la struttura del poliambulatorio specialistico della defunta Inam ma con una doppia invarianza:
• quella sovrastrutturale tipica degli ambulatori della mutua
• quella aziendale che oggi sovraintende tutte le strutture sanitarie quindi compresa la Casa della Comunità
La Casa della Comunità anziché essere gestita direttamente dalle mutue, come ai tempi dell’Inam, oggi è gestita dall’Azienda. Quindi in modo verticistico e monocratico nel senso che, nella sua idea di gestione, la comunità è esclusa. Cioè sono esclusi sia i cittadini che gli operatori che compongono la comunità. Cioè l’idea di comunità in quella di Casa della Comunità non implica, come nell’idea generale del Welfare Community, una partecipazione sociale dei soggetti ma (per la semplice ragione che la partecipazione sociale è in piena contraddizione con la gestione aziendale), se a gestire i servizi ci fosse la comunità… l’azienda non sarebbe più azienda.
Per cui l’inganno.
Siccome l’azienda non è in discussione (anche se dovrebbe esserlo) ad azienda invariante il PNRR fa finta di cambiare le strutture ma senza cambiarle.
Ho già spiegato ampiamente le mie perplessità nei confronti di una sinistra che dimostra con il PNRR e con il DM 77 e il DM 70 di essere del tutto priva di un orizzonte riformatore e di essere prigioniera delle sue controriforme neoliberiste .
A queste perplessità mi permetto di aggiungere anche quelle nei confronti di quella cultura cattolica che seguo con interesse e che però incassa come un successo la “Casa di Comunità” rendendosi complice di un inganno sociale bello e buono.
Ingannare le persone è ingannare la comunità.”

Ringraziamo il Prof. Ivan Cavicchi per la squisita cortesia che ha voluto riservare ai nostri dubbi così che le elaborazioni culturali, a cui in nostro gruppo si dedica, possano essere epistemologicamente coerenti. Pare che il noto DM77 non apporti quindi nessuna sostanziale innovazione anzi il tema del “debito orario” dei mmg nei confronti dell’attività che dovrebbero essere svolte nella così detta “Casa della Comunità Hub” non può che aggravare la situazione organizzativa irreversibilmente, di giorno in giorno, senza che la narrativa sulle CdC abbia prefigurato un compenso sostanziale per le comunità (liquide?). Non si può nemmeno pensare di poter affrontare un tema così complesso come quello delle relazioni tra persone o delle comunità applicando il principio filosofico del decostruzionismo (Derrida, Heidegger) molto accademico, tuttora in via di dibattito e poco adatto a percorsi formativi dedicati a volontari delle CdC. Nel complesso appare che la questione sanità/salute e, nello specifico la riforma del territorio, sia così ingarbugliata e avanzata nelle sue contraddizioni interne ed esterne (globalizzazione e neo-liberalismo) che solo una movimento bipartisan, cioè un accordo condiviso e accettato da tutte le parti politiche parlamentari, può riformare (secondo la cornice della “quarta riforma”) e difendere la più importante opera pubblica del nostro paese: il SSN.

Se le comunità non ci sono più non possono nascere per normativa. Non ci sono nemmeno le collettività ma le connettività. Il plurale è drammaticamente diventato singolarismo. Per riuscire a convivere in un sistema-mondo complesso alcuni autori suggeriscono di provare ad orientarsi verso processi operativi ( es.: le buone esperienze topiche professionali e di volontariato, in atto da numerosi anni, ritenute di serie B dall’apparato decisionale che ha sempre preferito relazioni consociativistiche che, a loro volta, hanno condotto ad una situazione che, agli occhi dei cittadini e dei professionisti, è fortemente ammalorata) o sperimentali, anche se dopo poco inesorabilmente ci si ritroverà in un successivo sistema complesso. Proprio su QdS del 6 maggio 2024 Ivan Cavicchi ci regala un metodo straordinario che dovrebbe diventare il bagaglio fondamentale di ogni leader affidabile generativo di una eventuale principio di comunità (es.: il mmg fiduciario): l’imperativo categorico che inevitabilmente ci fa’ ricordare quel che resta di Ippocrate. In particolare Cavicchi richiama la frase di S. Agostino “Dilige et fac quod vis” (Ama e fa quel che vuoi)… Con una semplificazione ardita, speriamo non blasfema, si potrebbe dire: ama questa professione impareggiabile per professionisti e assistiti…. Il resto verrà tutto da sé. Ne consegue che amare non può stare con l’ignoranza, lo speculare, l’avvantaggiarsi o l’ingannare. Così come la non verità non ha nulla a che fare con l’amare.

Bruno Agnetti
Presidente Centro Studi Programmazione Sanitaria (CSPS) di Comunità Solidale Parma ODV-Runts

Giuseppe Campo
Centro Studi Programmazione Sanitaria (CSPS) di Comunità Solidale Parma ODV-Runts

Vito Alessandro D’Ercole
Centro Studi Programmazione Sanitaria (CSPS) di Comunità Solidale Parma ODV-Runts

Maina Antonioni
Centro Studi Programmazione Sanitaria (CSPS) di Comunità Solidale Parma ODV-Runts

08 maggio 2024
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La narrazione favoleggiante sulle Case di Comunità

29 APR - Gentile Direttore,
sul tema “comunità”, che per estensione potrebbe inglobare anche il termine “Case della Comunità”, sembra proprio che Bauman e altri pensatori insieme a lui (Zamagni, Cavicchi, Benasayag, Byung-Chul Hann, Benanti, Floridi, Mortari, Morin…) abbiano scritto inutilmente le loro opere. Se le varie forme di “comunità” si sono liquefatte sotto i colpi della globalizzazione, dovrebbe apparire paradossale, una vera contraddizione in termini, imporre, oggi, per normativa, strutture edilizie in conto capitale definite “Case della Comunità” (CdC). Forse sarebbe stato più lineare continuare a definirle “Case della Salute” (CdS).

La vulgata che le CdC siano una innovazione nei confronti delle CdS in quanto nelle CdC verrebbero inseriti, in modo tutt’ora incomprensibile, il terzo settore e il sociale non corrisponde al vero: basta leggere i documenti riferibili alle CdS (2010) ed eseguire una banale ricerca per parole chiave. Così come potrebbe essere sorprendente scoprire che i temi dell’ambiente e del contesto (oggi è di tendenza il temine “one health”) sono già ricompresi addirittura nella legge 833 del 1978. 

La narrazione favoleggiante sulle CdC è quindi triste ed infelice dall’inizio, manca di trasparenza, è informativamente asimmetrica. Non risolverà i gravi problemi che discriminano assistiti e professionisti in quanto differenziati nella fruizione dei servizi. Pare ancora una volta che la visione individualistica e consumistica aziendale abbia il sopravvento e manifesti l’incapacità di sperimentare nuovi assetti comunitari immersi nella molteplicità della complessità e che rifiutano la gerarchizzazione proprio perché gli assistiti ed i professionisti non sono riducibili ad una rigida dimensione.

In ogni caso l’istinto ontologico volto a creare piccole comunità potrebbe trovare, in ambito sanitario, un estremo appiglio proprio nella relazione fiduciaria (rito collettivo?) che contiene in sé aspetti pattizi ed etici.

Le situazioni di commissariamento e sub-commissariamento che perdurano, anche in realtà unanimemente considerate modelli per il paese, non aiutano né a cogliere il significato di siffatte precarietà gestionali/organizzative né a limitare le problematiche che tendono a deteriorarsi di mese in mese. Il caos non permette mai di conoscere una strada da seguire ma abbandona le persone e i professionisti di buona volontà ad un orizzonte impenetrabile.

E’ commovente come, ancora una volta, nelle regioni dove le Ausl si reputano, in modo autoreferenziale, le più avanzate, siano state organizzate, dalle Aziende Sanitarie insieme alle Amministrazioni Comunali, all’Università e ad alcune Associazioni estranee ai territori di interesse, percorsi formativi per i soggetti che direttamente o indirettamente dovranno, secondo gli intenti, popolare le CdC. I percorsi dovrebbero servire ad accompagnare la così detta “partecipazione dal basso”. Fotocopia di quanto è già capitato all’inizio della stagione consociativista per le Case della Salute con i risultati che sono di fronte agli occhi di tutti.

Secondo la letteratura, l’attività di condivisione delle scelte sanitarie pubbliche che interessano i cittadini di un quartiere dovrebbero seguire le regole della co-operazione e riguardare l’intero processo decisionale. Significa che bisognerebbe partire insieme, allineati e parificati, nel rispetto delle specificità non gerarchiche ma curriculari. Il primo step è quello dell’ideazione. Poi si passa alla progettazione, di seguito alla realizzazione per poi terminare con la sperimentazione e la stabilizzazione. Il compendio è dato dalla rendicontazione rivolta ad es.: alla popolazione di un quartiere da parte dei professionisti fiduciari di riferimento che sovraintendono l’intero processo. Quando invece le istituzioni sovraordinate (es.: DM77, Metaprogetto, Regione, Ausl, Amministrazioni locali, Associazioni nazionali…) cercano di convincere i diretti interessati “ad integrarsi” alla fine del processo, cioè dalla coda, allora la trasparenza fa difetto e si crea quella che si definisce una asimmetria informativa. Ed è qui che casca l’asino.

Desta oltremodo meraviglia che le istituzioni (e di conseguenza i processi di formazione da loro attivati) non siano nemmeno in grado di conoscere e di valorizzare esperienze che negli anni si sono dispiegate sotto il loro naso. Oltre alla cronicità e alle fragilità esistono anche persone della 3° e 4° età ancora in buona salute che avrebbero un grande vantaggio nel poter usufruire di servizi sociosanitari completi in una struttura di quartiere raggiungibile in 15 minuti dalla propria abitazione. Si dovrebbe considerare che numerosi pensionati e anziani, ormai mediamente alfabetizzati in ambito sanitario se non addirittura intellettuali del settore, sono in grado di avvalorare ancor di più la stratificazione generazionale professionale, i quartieri e il volontariato. Soprattutto non gradiscono essere considerati manovali prestazionali finalizzati all’efficientamento di disservizi di competenza pubblica.

Le notevoli risorse utilizzate per dare vita a Comitati di Indirizzo, Gruppi di Progetto, Patti Sociali, Percorsi Formativi hanno ignorato il contesto specifico, hanno coinvolto associazioni esterne ai quartieri o ingaggiato soggetti privi di curriculum coerente. Si è arrivati perfino a sostenere modelli amazzonici (sic!) per i “nostri” territori.

Dalla stagione delle “Case della Salute” ciò che non è mai stato effettivamente risolto è la necessaria parità di risorse di partenza per cittadini e professionisti (strutturali, organizzative, gestionali ed economiche). Molti pazienti, di fatto ma non di diritto, e i loro professionisti sono quindi diventati, da numerosi anni, di serie B. Tuttavia, i mmg, ancora punti di riferimento per una popolazione, anche se discriminati, tentano di risolvere i bisogni dei loro assistiti nel miglior modo possibile. Non si può però pretendere da questi medici più di quello che fanno anche perché, se il SSN sta ancora in piedi, molto è dovuto al loro silenzioso e quotidiano lavoro di prossimità. Il pensiero unico, che si auto assolve sempre da ogni responsabilità, non si è mai interessato fattivamente delle competenze delle piccole comunità forse irritato da una loro, ormai esigua, autonomia (che verrebbe eliminata completamente dalla dipendenza). Spesso ne hanno ostacolato l’operatività tanto che, nelle inevitabili difficoltà, prontamente puntano il dito su un presunto insufficiente volontarismo di professionisti e cittadini.

Bruno Agnetti
Centro Studi Programmazione Sanitaria (CSPS) di Comunità Solidale Parma ODV

29 aprile 2024
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“Comunità”, termine inflazionato?

08 APR - Gentile Direttore,
“In quel paese che sorge in qualche angolo dell’Italia… nella pianura del Po… ciascuno lotta a suo modo per costruire un mondo migliore… e qui accadono cose che non accadono in nessuna altra parte del mondo…”. Si diceva così nel film (1952) tratto dal romanzo di Giovannino Guareschi, “Don Camillo”.
Il termine “comunità” diventa dominante, in particolare nelle alte amministrazioni e nelle alte dirigenze, (salvo realtà germogliate nel volontariato in tempi non sospetti dopo lunga meditazione e condivisione) dopo i suggerimenti contenuti nel PNRR. Risente di contingenze e di modifiche interpretative e, per questo, è poco autorevole: non ha avuto il tempo di generare una narrazione veritiera. Non crea coraggio. E’ disfunzionale. Non crea comunità e viene percepita come un surrogato intellettuale che offre un finto senso di identità a buon mercato.

Non è il modello di cure primarie del Brasile o quello Portoghese (sic!) pur tuttavia emerge, nel “mondo piccolo”, qualche esperienza sanitaria di base o territoriale, ben “stagionata”, che potrebbe ottenere miglior fortuna a fronte di ipotesi di tendenza ma alquanto salottiera.

Purtroppo non sono gli appelli o le petizioni che modificheranno la brutta china scivolosa nella quale si trova il nostro sistema sanitario (in particolare quello territoriale). Le cause sono note. La presenza, tra i firmatari delle istanze, di persone che meritano un indiscutibile rispetto non nasconde il fatto che vi siano responsabilità storiche perfettamente identificabili.

La criticità relativa al finanziamento è certamente un argomento serio. La globalizzazione e l’egemonia finanziaria alimenta un consumismo che tende all’infinito. Di conseguenza i fondi non saranno mai sufficienti se oltre all’aspetto economico/finanziario non si associa una solida riforma compossibile previo ampio dibattito pubblico con i professionisti e i cittadini o almeno parlamentare. In questi anni la Conferenza Stato Regioni ha esercitato un ruolo decisionale quasi egemonico con la propria Commissione Sanità continuamente presieduta dai rappresentanti di una o due regioni: la sola questione danarosa quindi potrebbe apparire come un ineccepibile alibi piagnucoloso al fine di oscurare i pregressi processi decisionali controriformisti o esigenze di apparato.

Il mondo della sanità si sta orientando in senso opposto alla 833? Il nostro paese non ha una sovranità tale da potersi opporre, a livello sanitario, al consumismo neo-liberale? Lo si dica chiaramente e forse la società civile, stanca di gestioni consociativistiche e deludenti, troverà una soluzione già sperimentata nella sua storia di associazionismo e di auto-aiuto.

Se invece si considera la sanità una delle più importanti opere pubbliche della nostra nazione occorre trovare il modo di non abbandonare questo bene comune ricorrendo, con responsabilità bipartisan, a modelli come il Welfare di Comunità (vero!) elaborato da Stefano Zamagni e al medico autonomo/autore di Ivan Cavicchi.
La riforma 833/1978 è stata crivellata, dalla sua promulgazione ad oggi, da una infinità di controriforme (nazionali e locali) che l’hanno sostanzialmente annullata.

Attualmente l’asfissiante chiacchiericcio sulle Case della Comunità, Ospedali di Comunità, Distretti, dipendenza dei mmg ecc. sembra voler nascondere la mancanza di una cultura sanitaria pubblica.

La comunità, secondo Aristotele, non è definita da un luogo, da un ambito geografico o da una struttura (CdC) ma dal fatto che un gruppo di cittadini siano in grado di garantire una buona vita alle persone di un territorio affinché possano sviluppare una esistenza indipendente e autonoma pur all’interno di una reciproca solidarietà così che concretizzi una vita degna di essere vissuta. La comunità (contenuta nei numeri) è prioritaria rispetto ad un individuo anche se, proprio grazie alla solidarietà degli altri, lo stesso soggetto singolo può sviluppare la propria individualità.

Infatti la persona non solo è un vivente politico-sociale-comunitario ma è anche l’unico essere che ha il logos cioè il linguaggio-ragionamento “prudente/calcolante” ed è in grado, con la ragione e il dialogo, di stabilire, ad esempio, forme di assistenza misurata (es.: da parte dei mmg) e proporzionata per quella comunità affinché non prevalgono logiche individualistiche dannose (es.: un consumismo amministrativo).
Ciò che dà valore “unico” ad una comunità raccolta intorno ai propri mmg di riferimento sta nel fatto che, in questo modo, è possibile soddisfare i bisogni dei suoi componenti seguendo il criterio di “finitezza” a sua volta sostenuto dal tessuto solidale. Da questo punto di vista potrebbe apparire irragionevole e solo economicistico mettere in campo un costoso meccanismo di appropriatezza prescrittiva. Chi se non il mmg può aiutare le persone, che lo hanno scelto fiduciariamente, ad inserire nel loro bagaglio culturale il concetto del limite, della misura, financo che la vita ha un termine? Non saranno certo le istituzioni o le alte dirigenze o le amministrazioni o i protocolli o gli algoritmi a poter comunicare empaticamente tali riflessioni.

Contrariamente alcuni recenti movimenti filosofici, immersi in una realtà neoliberista, tendono a promuovere una vita illimitata e senza termine (trans umanesimo e post umanesimo). Così la società consumistica opterà per un soddisfacimento dei desideri individuali con quella smania di illimitatezza che corrisponde alla massima distanza dalla ragione. Questa cultura che penetra anche le istituzioni e i gruppi culturali satelliti porta alla disgregazione del tessuto comunitario e della sua tenuta etica. La mancanza di limite riproduce sempre lo stesso ciclo di produzione consumistica tanto da arrivare ad utilizzare i cittadini (volontari, professionisti, assistiti) come semplici strumenti operativi.

La comunità giusta è quella che non è troppo grande né troppo piccola, non ha troppi abitanti né troppo pochi, non conta persone troppo ricche né troppo povere. E’ una popolazione che necessita quindi di un auto-controllo autonomo interno grazie ad individualità specifiche solidali (es.: mmg fiduciari) e all’alternanza tra il governare e l’essere governati perché, questo, è il vero abitare la democrazia.

Tommaso (che avrebbe volentieri voluto battezzare Aristotele), sostiene che, nel caso vi fosse pericolo per la comunità e il bene comune, sarebbe lecita la “perturbatio” cioè la ribellione in quanto significherebbe disubbidire ad una tirannide e obbedire a Dio.

Bruno Agnetti
Centro Studi Programmazione Sanitaria (CSPS) di Comunità Solidale Parma ODV

08 aprile 2024
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Una formula esemplificativa può essere considerata una affermazione cogente?

Gentile Direttore,

nel 2021 l'Unione Europea ha regolamentato il noto strumento finanziario (PNRR) per supportare la ripresa negli Stati membri dopo il periodo Covid. Nel 2022 è stato emanato il Decreto Ministeriale (DM77) che descrive i nuovi modelli e gli standard per lo sviluppo dell’assistenza territoriale del SSN (Casa della Comunità, Numero europeo per la Centrale Operativa, Centrale Operativa Territoriale, Infermiere di Famiglia e Comunità, Unità di Continuità Assistenziale, Assistenza Domiciliare, Ospedale di Comunità, Rete delle Cure Palliative, Servizi per la Salute dei Minori-delle Donne-delle Coppie-delle Famiglie, Telemedicina).

Nel 2023 la modifica del PNRR presentata dal Governo italiano non ha modificato la Missione 6 (potenziamento e creazione di strutture e presidi territoriali, il rafforzamento dell’assistenza domiciliare, lo sviluppo della telemedicina ed una più efficace integrazione con tutti i servizi socio-sanitari). Nello stesso 2023 viene istituito un tavolo tecnico (affollatissimo) dal Capo di Gabinetto del Ministero della Salute con il fine di studiare le criticità emergenti sanitarie anche se nei vari sottogruppi non è stato espressamente indicata, come materia da indagare, il riordino delle cure primarie. Di conseguenza si può ritenere che il DM 77 non contenga particolari criticità relative all’organizzazione assistenziale territoriale.

Gli interventi riportati su QdS in merito alla medicina generale sono stati molto interessanti, operativi e pragmatici. Le diverse sensibilità sono tutte meritevoli di attenzione (es.: mmg dipendenti o mmg liberi professionisti convenzionati autori/opera di se stessi). Nondimeno sarà concesso a qualche “spettatore”, di approfondire alcuni contenuti con l’angolo di osservazione dell’assistito che, per ragioni varie, frequenta gli ambulatori dei mmg.

L’intento dell’esercizio è quello di analizzare se in qualche costrutto teorico possano celarsi antinomie o contraddizioni in grado di minare nelle fondamenta le stesse ipotesi a discapito dei pazienti e dei loro medici di base di riferimento.

Il latte è stato frettolosamente versato e le norme sono state emanate per la soddisfazione di aziende e regioni.  È facilmente prevedibile che dopo la cornice, sufficientemente regressiva, del recente ACN, le regioni, nella loro già smisurata autonomia in tema sanitario, recupereranno il terreno e re-interpreteranno l’intero DM77 “pro domo eorum” con la pubblicazione degli Accordi Regionali.

Nel postulato di base del PNRR (assunto poi pienamente dal DM 77 e nel divinizzato pensiero unico dominante che incensa in ogni dove le Case della Comunità spoke) si afferma che per adempiere alla Missione 6 punto 1 sia opportuno erogare prestazioni, creare strutture e presidi territoriali. Questa affermazione è subito seguita da una parentesi che inizia con un “come”. In che modo va interpretato il “come”? Secondo la Treccani il termine “come” potrebbe essere considerato un avverbio di maniera (esemplificativo, al modo di) senza per forza significare una iniziativa a carattere cogente. Se così fosse sorge spontaneo il dubbio che il punto 1 della Missione 6 possa essere raggiunto anche con altre modalità più adatte alla complessità e alla compossibilità tipica delle cure primarie (es.: con il potenziamento strutturale e funzionale, su tutto il territorio nazionale delle medicine di gruppo e dei NCP seguendo anche le linee guida professionali Wonca singolarmente nemmeno nominate nel DM77 e nel recente ACN).

Le leggi e gli accordi sono comunque varati e la nave ha impostato una rotta (improbabile). La soffocante narrazione unica (incantatrice, contagiosa e foriera di relativismo etico) insiste sui grandi benefici delle Case della Comunità spoke che tuttavia presentano, nella concretezza, un’offerta di servizi carente e nemmeno paragonabili alla reale operatività di una qualsiasi Medicina di Gruppo ben organizzata.

Comunità Solidale Parma, associazione di volontariato (ODV), grazie alla disponibilità dei volontari facilitatori, sta realizzando una piccola indagine (questionari e interviste) rivolta ai pazienti che frequentano l’ambulatorio/medicina di gruppo. La finalità è quella di sondare uno stato d’animo e il clima emotivo degli assistiti nei confronti della medicina generale di base e delle informazioni che le persone ricevono dai media in merito a questo tema. Da una prima stima molto parziale, non analitica e casalinga, emerge che su 100 assistiti adulti, frequentatori della medicina di gruppo il 47% non sa cosa sia una “Azienda” sanitaria; il 71% considera il rapporto fiduciario con il mmg fondamentale e non vorrebbe che il medico di base diventasse un dipendete pubblico; il 57% si augura che il SSN abbia una direzione nazionale e non regionale e il 66% vorrebbe cimentarsi, autonomamente, nell’intero processo decisionale su questioni che riguardino la comunità o il quartiere nella convinzione che la medicina generale vada considerata un bene comune per una popolazione. Il 68% degli assistiti contattati hanno dichiarato di non sapere quale sia la differenza tra Casa della salute e Casa della Comunità. Percentuali molto elevate e positive, 82%, hanno ricevuto le domande che indagavano il gradimento degli assistiti verso il ruolo di servizio dei volontari facilitatori presenti tutti i giorni in ambulatorio con la funzione di aiutare l’accesso e l’orientamento degli assistiti soprattutto quando le questioni richiedono accoglienza affettuosa e parole cordiali.

Alcuni comportamenti all’interno delle piccole comunità guidati dall’etica professionale e collettiva possono interagire in modi complessi ma sono in grado di riformulare il futuro sanitario. Indipendentemente dalle norme già varate nulla impedisce di pensare a nuovi modi di fare le cose capaci di rendere culturalmente inutili quelle attualmente proposte (già avvizzite al loro apparire).

Bruno Agnetti

Centro Studi Programmazione Sanitaria (CSPS) di Comunità Solidale Parma ODV

04 marzo 2024

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case della salute

Per una filosofia delle cure primarie

Gentile Direttore,
in un articolo del 3 novembre il prof. Ivan Cavicchi ha sostenuto che fosse, in primis, necessario dire almeno qualche verità sulla situazione attuale del SSN per pensare ad una efficace riforma sanitaria. Questa ricerca della verità può essere facilitata in periferia dove i professionisti e le comunità possiedono una abilità originale nel leggere la professione e l’evoluzione sociale. All’origine della cultura occidentale sono state proprio le colonie ioniche o quelle della Magna Grecia che hanno contribuito alla sua diffusione più di quello che aveva fatto la madre patria (Atene).

Il tema dell’integrazione può essere un esempio emblematico di come la periferia riesca a superare di molto le elaborazioni istituzionali burocratiche. Molti mmg hanno creato spontaneamente reti di relazioni che permettono di operare in modo integrato. Il servizio territoriale del SerDP da sempre realizza un’integrazione quotidiana, strutturata tra medici, psicologi, servizi sociali, attività educative, infermieri, iniziative sperimentali ed innovative con volontari ed assistiti. È un modello ben rodato, interno al SSN, che avrebbe potuto essere utilizzato come schema formativo ed operativo per altri servizi territoriali e per la medicina di base indipendentemente dalla presenza o meno di strutture in conto capitale (Case della Comunità).

Malgrado questo le istituzioni (soprattutto regionali e aziendali) fanno a gara per ricercare modelli “esotici” di riordino del sistema di integrazione territoriale. In questi ultimi anni è cresciuto sempre di più, tanto da diventare “di tendenza”, il modello brasiliano (sic!). Qualche tempo fa erano “di gran moda” le Case della Salute spagnole o la pianificazione delle Cure Primarie portoghesi: a guardar bene sistemi completamente diversi dall’attuale SSN Italiano (es.: i mmg in quei paesi sono dipendenti).

Desta veramente meraviglia come i decisori possano essere così masochisti e incapaci di ascoltare o di vedere ciò che di prezioso c’è nel nostro territorio. Questa interminabile autoreferenzialità delle oligarchie porta il tutto al macero.

L’elenco delle contraddizioni inattendibili contenute nei documenti sanitari ufficiali e nelle elaborazioni delle agenzie culturali sono numerose. Si possono ricordare solo alcuni temi.

Il PNRR pur essendo uno “strumento finanziario” viene considerato dai più una riforma.

Il DM77 che palesemente “non spicca per innovazione” trascinerà comunque con sé per anni le incoerenze strutturali e regressive negli ACN, negli Accordi Regionale e in quelli Aziendali/locali.

Il concetto di “governance” è diffusamente percepito dagli operatori come un termine completamente sovrapponibile ad una rigida forma di governo di controllo assoluto e autoritario pur ammantato da affabilità.

“L’assistenza centrata sul paziente” è e sarà inesistente come dimostrato delle infinite, irrazionali e antiscientifiche liste d’attesa.

Finta è la valorizzazione delle comunità, del volontariato, del terzo settore ma anche dei professionisti di periferia che vengono coinvolti nel processo decisionale ex-post, in senso consultivo e solo se funzionali a quanto già deciso nei palazzi.

I Distretti raffigurati come “mera articolazione organizzativa delle Aziende” hanno dimostrato negli anni di essere fortemente regressivi e di non saper leggere i bisogni delle popolazioni, tuttavia continuano ad essere osannati ed incensati come elementi di innovazione.

I commissariamenti che perdurano da anni anche in realtà considerate eccellenti (luogo comune?) restano incomprensibili perché, indirettamente, avvallano il pensiero che in quei territori non vi siano individui in grado di svolgere le funzioni istituzionali stabilite dalle normative.

La questione della dipendenza o della libera professione convenzionata dei mmg non è “futile” ma sostanziale in quanto “l’orizzonte degli eventi” si modifica radicalmente. Anche se solo si trattasse del “diritto di critica” del dipendente che può essere esercitato solo all’interno di precisi limiti (come da sentenza della Cassazione 17784/2022) e, se non rispettati, un eventuale esternalizzazione avversa può essere soggetta alle conseguenze di una Commissione Disciplinare Aziendale.

Le Case della Comunità (in conto capitale) sono in affanno per la difficolta di armonizzare le “mura” con un conto corrente (cioè la funzionalità quotidiana strutturata). Forse perché contradditorie, inadeguate ai bisogni dei territori, generatrici di discriminazioni professionali e assistenziali, ideate up-down prima ancora di sapere cosa e chi contenere. Il sistema è in difficolta e pare non poter essere equanime nell’offrire, a tutti i mmg che dovessero fare richiesta, una CdC. Gli edifici detti edifici “spoke” sono palesemente inadatti tanto che non possono nemmeno essere considerati equivalenti ad una semplice Medicina di Gruppo ben organizzata. Se si analizzassero adeguatamente i bisogni dei territori ci si accorgerebbe che le CdC, sia “hub” che “spoke”, non potranno mai risolvere i problemi anche se il martellamento pubblicitario esercitato dagli addetti ai lavori può generare un bisogno (consumistico) nei cittadini senza che questi sappiano di cosa effettivamente si tratta.

Per non parlare, infine, del sistema di formazione continua ECM che, se confrontato con le infinite possibilità di aggiornamento in tempo reale per professionisti interessati alla propria “opera”, appare, quanto meno, arcaico.

Quale “futura riforma” potrà mai essere elaborata oggi dagli stessi soggetti che dominano la sanità da anni e che l’hanno portata alle corde? Non è possibile fare bene ed essere di qualità se ci si è disinteressati della dimensione (spesso inespressa) che caratterizza il contesto e le relazioni tra coloro che vivono la quotidianità territoriale delle cure primarie.

Le numerose incoerenze emergenti richiederebbero la mobilitazione delle forze culturali sensibili al tema della salute, dei professionisti e dei cittadini al fine di ricercare principi di Verità/Giustizia/Etica coerenti, razionali, compossibili. In questo senso una filosofia dell’organizzazione territoriale delle cure primarie può proporsi di utilizzare il sapere (nella sua essenza) a vantaggio della vita delle persone (Platone) e dei professionisti a fronte di una medicina amministrata funzionale solo per agli apparati. Il filosofo infatti assume la medicina come modello di una metodologia per raggiungere il sapere e per uscire dalle contraddizioni derivanti da una conoscenza esclusivamente teorica (es.: burocratico/amministrativo/di controllo) ma priva di aperture sull’esperienza.

Bruno Agnetti
Centro Studi Programmazione Sanitaria (CSPS) di Comunità Solidale Parma ODV

14 novembre 2023
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Purché nulla cambi?

Gentile Direttore,
alcuni interventi recenti, tra i tanti che potrebbero essere citati, aiutano e incoraggiano a tentare di ri-cercare, almeno culturalmente, il bandolo della matassa. L. Fassari (La sanità sospesa tra le poche risorse e la paura di cambiare, QS 5 ottobre 2023) ricorda come non sia più possibile la sola manutenzione della macchina… ma occorrono idee e coraggio. Il tenace Prof. I. Cavicchi avvisa i naviganti che di propaganda si può affogare se non ci sono i salvagenti (Di troppa propaganda il Ssn muore, QS 10 ottobre 2023; Bene auspicare una nuova riforma della sanità ma ora servono le proposte, QS 13 ottobre2023).

In merito alla medicina generale molto è già stato scritto su questioni inerenti la “Quarta riforma”, il medico di medicina generale “Autore”, il welfare di comunità. Di attualità è il tema delle Case della Comunità che probabilmente delineano uno dei maggiori abbagli controriformisti: infatti la narrazione unilaterale cela il fatto che le CdC spoke rappresentino, concretamente, un pesante declassamento della medicina di base a causa delle verosimili discriminazioni, strutturate normativamente, assistenziale e professionali.

La potestà dei tradizionali livelli decisionali della piramidale galassia sanitaria ha già deliberato, da tempo, ogni cosa e concede solo qualche residua briciola all’esausto ed impotente dibattito pubblico. Il potere, quando è un potere, si mostra affabile ma inesorabile a difesa del vantaggioso, per pochi, status quo.

A latere delle argomentazioni citate potrebbero meritare una riflessione dialogica alcuni temi apparsi sulle colonne di QS. Considerando però ciò che è capitato (crisi economica, approvvigionamento energetico, transizione ecologica, covid, inflazione, guerra) e sta capitando ( guerra medio-orientale ed altri focolai di guerre “a pezzi” nel mondo) ogni commento casalingo potrebbe sembrare inadatto quando l’equilibrio geo-politico ed economico muta sotto i nostri occhi e trascinerà fatalmente, con se, anche i sistemi sanitari nazionali.

Si è ragionato sul tema dell’ECM. Il programma di Formazione Continua in Medicina (ECM) inizia nel 2002 in conformità con il DL 502/1992 e 229/1999 la cui gestione viene affidata, nel 2007, all’Agenzia Nazionale per i Servizi Sanitari Regionali (Agenas). In venti anni di acqua ne è passata sotto i ponti. Le innovazioni tecnologiche e le occasioni per poter usufruire di aggiornamenti professionali in tempo reale sono oggi incredibili. Congressi o eventi in presenza sembrano diventati obsoleti. Eppure l’ECM per i mmg, nel tempo, è cambiata poco o nulla. Forse sono aumentati solo gli eventi “obbligatori” di Ausl e Regioni. Ciò che invece dovrebbero essere valorizzate sono le strategie di apprendimento contestuali e auto organizzate a piccoli gruppi (es.: mmg dei NCP o mmg dei team assistenziali) dove è possibile la circolazione dei saperi. Nell’apprendimento continuo vanno inseriti anche l’organizzazione degli incontri stessi, la partecipazione ai team assistenziali, il coinvolgimento -anche amicale- di esperti, le docenze, le presentazioni, l’elaborazione di articoli, le pubblicazioni, la partecipazione a programmi o progetti, la co-operazione attiva alla vita sociale del proprio territorio… Sarà necessario ripensare un nuovo equilibrio più liberale ed esentato da obblighi punitivi, per altro evanescenti, per gli ECM?

Particolarmente analizzata è stata la questione della sfrenata raccolta “dati” in funzione di una auspicata “qualità”. A tutt’oggi, a livello territoriale, non pare vi sia stato il miglioramento assistenziale atteso. Anzi le criticità incrementano e non sembrano apparire all’orizzonte fausti presagi. È possibile che l’ubriacatura procurata dallo stoccaggio nei “silos” di informazioni in fermentazione produca solo uno stordimento afinalistico. I fatti, relativi agli esiti sull’organizzazione territoriale, dimostrano come persista uno scollamento con la realtà. Il riferimento fideistico ai “big data” comporta, quasi in modo direttamente proporzionale, un incremento di sfiducia nei professionisti mmg (vedi sistemi di priorità continuamente rivisti; le variazioni dei nomenclatori clinici; l’infinito riordino del sistema emergenza-urgenza e il fiorire di splendidi nuovi acronimi tanto cari ai cittadini; il richiamo incessante all’obiettivo di ridurre gli accessi impropri al PS e i ricoveri arbitrariamente attribuiti alla mission del mmg). L’innegabile vantaggio dell’informatizzazione in sanità territoriale si volatilizza se questa è impiegata, essenzialmente, come mezzo di controllo burocratico e non come strumento a sostegno del mmg e dell’assistenza. La creazione di un regime disciplinare orientato a raccogliere esclusivamente informazioni trasforma i professionisti (inconsapevoli) in banali strumenti di lavoro. Alla frenesia comunicativa/informativa non interessa il pensare, il confronto, la relazione.

Sta di fatto che senza i legami sociali non si creano le abilità per dedicarsi agli altri. Senza relazioni libere e fiduciarie si ottiene il paradosso di una “comunicazione senza comunità” enfatizzata proprio dalla narrazione sulle Case della Comunità. Se mancano le relazioni non c’è nemmeno l’attualità perché manca la socializzazione (i dati si possono aggregare fin che si vuole ma appartengono sempre alla sfera singola e non rappresenteranno mai la collettività se non in senso linearmente probabilistico). Tutto ciò facilita l’avvento di regimi gestionali manageriali basati sull’economicismo e con un eticità in grado di dissolvere, anche le persone, in una misera serie di dati ( Byung-Chul Han, Infocrazia, Einaudi 2023).Tuttavia è fortemente diffusa la convinzione che la raccolta dati sia effettivamente vantaggiosa per migliorare i servizi. Le informazioni accumulate, comunque, non sono riuscite ad offrire veri orientamenti sul medio periodo e hanno fallito nell’ambito della coesione sociale e del consenso (zoppica il DM77, zoppicano ancor di più le CdC, addirittura annaspa l’assurdo concetto di spoke …).

Modelli o proposte rivolte ad una soluzione alternativa delle problematiche della medicina generale territoriale (ancora poco appetibile per il sistema privatistico) ed in particolare i progetti elaborati dalla co-operazione volontariato/mmg, (dove si ritiene che la medicina di base sia un “bene comune” per una comunità), vengono disconosciute, ignorate, nascoste, negate dalla fregola che fa correre i portatori dei “loro” interessi ad azzuffarsi per un posto da “capotreno”. Dio non voglia che l’ossessione faraonica di edificare le “proprie” piramidi non sia la causa della fuga dei professionisti che si sentono schiavizzati. Sarà necessario ri-pensare, per le cure primarie, un nuovo equilibrio adeguato al contesto e non agli apparati zoppicanti/anneganti?

Bruno Agnetti
Centro Studi Programmazione Sanitaria ( CSPS) di Comunità Solidale Parma ODV

16 ottobre 2023
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Medicina Territoriale

Innegabili sovrapposizioni tra casa della Comunità e Casa della Salute

Gentile Direttore,
la meccanica quantistica, si sa, è una fra le teorie più controintuitive. E’ strano che una particella possa comparire in due posti contemporaneamente anche a distanze siderali oppure che un fenomeno come l’entropia possa contraddire il tempo potendosi sviluppare in due direzioni opposte: in avanti rispettando il fenomeno dell’incremento del disordine (invecchiamento) ma anche, paradossalmente per il tempo che scorre, indietro o quasi.

Si sostiene che tutto questo dipenda dalla doppia natura delle particelle sub atomiche che sono nello stesso tempo porzioni di materia ma anche onde di energia. Tutto ciò, assicurano i fisici, è stato ampiamente dimostrato e potrebbe valere anche per “corpi” di dimensioni maggiori (batteri, esseri umani, corpi celesti) pur comportando, in questi casi, una documentazione della “sovrapposizione” terribilmente complicata.

Restando con i piedi ben piantati nella meccanica fisica classica non si può dire, come più volte sostenuto ex cathedra, in pubblico, dai cosiddetti esperti del settore che le Case della Comunità siano un netto miglioramento del modello Casa della Salute come è intuitivamente evidente osservando la schematizzazione delle due tabelle sinottiche a fondo pagina (CdS “Grande” vs CdC “hub”).

Il PNRR ha consentito il proliferare di narrazioni normativamente corrette ma soffocanti in favore del fatto che l’innovazione sia data soprattutto dalle Case della Comunità “spoke” (programmate in grande numero) che si collegheranno/integreranno con le Case della Comunità “hub” ( progettate in numero significativamente scarso) così da riproporre un infinito frattale “piramidale” che non ha nulla a che fare con i bisogni delle comunità/quartieri/zone.

Evidentissimo invece il vantaggio per il Distretto inteso non come area geografica ma come apparato amministrativo per altro invocato da molti come modello “salvifico” probabilmente non avendo mai sperimentato i vincoli egemonici possibilmente agiti. Come già approfondito a suo tempo è una questione di potere. Di norma l’obiettivo del potere non può esimersi dall’incremento del potere stesso fino all’esaurimento delle risorse disponibili.

Si replica inoltre la tragedia (a grande richiesta) già sperimentata nella stagione delle Case della Salute. Il racconto, tutto concentrato sulle Case della Comunità “spoke”, nasconde nelle pieghe dell’affabulazione la sventura della differenziazione (alcuni la definiscono discriminazione) professionale ed assistenziale. Infatti non è equivalente o sovrapponibile essere un professionista o un paziente affiliato ad una CdC spoke o assegnato ad una CdC hub in merito a opportunità professionali, servizi o assistenza offerti. Sorge inoltre un dilemma: chi ha deciso dove collocare una CdC hub o spoke? I professionisti? I cittadini assistiti/le comunità? Non sembra proprio ma “Così va il mondo” (Noam Chomsky, Piemme 2017) dove si è portati a ratificare, attraverso alcune ritualità formali, decisioni già prese e comunque separate dalla “policy” del bene collettivo. I cittadini sono intimorirti e smarriti di fronte ai depositari istituzionali “della verità sulla salute” a cui delegano, a causa dello squilibrio di conoscenze e mezzi, senza indugio, le scelte assistenziali/organizzative.

Ciò nonostante, emerge, molto intimo, un singolare pensiero quasi filosofico-stoico: ma è proprio vero che quando c’è la struttura burocratica/amministrativa sanitaria c’è tutto? Si può raggiungere la salute in modo diverso per essere felici? Il benessere può essere conquistato seguendo vie o indicazioni più personalizzate, orientate a stili di vita molto corretti e a sistemi riabilitativi bio-psico-sociali? Per vivere con passione e gusto l’esistenza forse occorre che ci sia qualcosa di grande, un ideale, un bene che renda la vita degna e piena. Paradossalmente per questo ideale spirituale una persona potrebbe essere disposta anche a ridurre la medicalizzazione, sempre più indiscreta, della vita stessa (C. Sanguineti 2021) ed accettare lo scorrere della vita o, se si vuole, la volontà di Dio.

Nel complesso l’impianto normativo sanitario attuale (ACN, DM77, Documenti di Agenzie e di Gruppi portatori di interessi ecc.) appare estremamente fragile, senza fondamenta culturali solide e condivise.

Di tutto ciò è stato appuntato già numerose volte e verosimilmente può non rappresentare nemmeno, dal punto di vista intellettuale, la “questione medica” attualmente più pregnante. Ipotesi e modelli alternativi di organizzazione territoriale sono stati presentati nel tempo da molti commentatori ( il medico “autore”, il vero “welfare di comunità” e l’autonomia territoriale, la dipendenza, rapporto fiduciario e libera scelta, la discrepanza tra la qualità formale, percepita, risultante…).

Mette comunque ora apprensione il destino delle persone che vivono in una comunità che si relaziona, per le questioni di salute, con i propri medici curanti di base. Nondimeno vi è una scarsa consapevolezza, tra gli assistiti, di quello che le normative istituzionali stanno prospettando per il territorio. Il contatto tra cittadini e istituzioni, quando esiste, è sempre estremamente sbilanciato. Le ricchezze esperienziali delle comunità non vengono considerate e si preferisce proseguire con liturgie autoreferenziali addirittura bocciate dalla globalizzazione neoliberalista che tenta di ricostruire un nuovo equilibrio mondiale dopo l’esperienza della pandemia, della fragilità energetica e della guerra. Il coraggio di confrontarsi con i cittadini non si esaurisce in una o due riunioni assembleari annuali. Non implicano nemmeno autorevolezza quelle figure che si autoproclamano rappresentanti dei cittadini o che vengono calate dall’alto dalle onnipotenti aziende sanitarie. Eppure il sapere all’interno dei sistemi complessi come quello sanitario ed assistenziale si crea anche dall’esperienza consapevole degli individui che costruiscono singolarmente più tipi di intelligenze (H. Gardner, Formae mentis, Feltrinelli 1988).

Se la complessità è un dato di fatto è necessaria una pluralità di approcci per comprenderla. Non si può affrontare la complessità con un solo metodo o con un pensiero unico o con modalità lineari rigide e verticistiche/gerarchiche. Le comunità grazie alle “intelligenze multiple” possono costruire con i loro medici di fiducia “la salute dei quartieri” da diversi punti di vista e in modo flessibile. L’autonomia delle comunità nei processi decisionali è sempre più vitale per il servizio pubblico di medicina generale (di base) ed è una netta alternativa alle attuali normative legislative e ai numerosi “stakeholders” molto interessati alle opportunità utilitaristiche che possono emergere dalle normative ufficiali ma che spesso non hanno nulla a che fare con i professionisti e con le comunità territoriali.

Bruno Agnetti
Centro Studi Programmazione Sanitaria ( CSPS) di Comunità Solidale Parma ODV


MMG

Comunità Solidale Parma

Video di presentazione estratto dal programma "Volontari senza barriere"

 


Medicina Territoriale

Case della Salute e Case della Comunità. Uguali o diverse?

Purtroppo occorre constatare che, al momento, le comunità sono smarrite, frantumate, frullate dalla globalizzazione e dai recenti avvenimenti sanitari ed economici. In questo senso il termine “Casa della Comunità” appare quindi ancor  più fuori contesto, instabile e senza reali punti o radici  di riferimento.

10 APR -

Il termine “Casa della Salute” (CdS) contiene la specificazione di una funzione o di una attività che, si intuisce, possa essere svolta in quella struttura. Quando invece si parla di “Casa della Comunità” (CdC) il contenuto comunicativo supera l’indicazione logistica e tende a dare come acquisita la presenza di una maggiore complessità.

Bauman ci ricorda come il desiderio di comunità sia molto forte ma richieda una carica generativa naturale e “tacita” proprio per una sua intima problematicità relazionale. Di contro le “comunità” che devono farsi sentire o valere o fanno sfoggio delle loro iniziative si autoeliminano come “comunità” in quanto contraddittorie. Possono essere imprese, gruppi di studio, progetti di scopo, portatori di interessi ma non comunità.

Il DM 77 (2022 e GU n.144) definisce la CdC come struttura socio-sanitaria che entrerà a far parte del SSN: per il momento, quindi, è ancora tutto da vedere...

Il Dgr n.291 del 2010 (78 pagine) della Regione Emilia-Romagna (documento antesignano sulle Case della Salute) definisce la CdS come punto di riferimento certo per i cittadini al quale ci si può rivolgere per trovare una risposta ai propri problemi di salute. E’ un presidio distrettuale a complessità diversificata (CdS piccola-media-grande) e ogni quartiere o territorio avrebbe dovuto avere la propria CdS anche se la vera innovazione era costituita “solo dalla CdS grande.

SCHEDA RIASSUNTIVA DEI SERVIZI E DELLE FUNZIONI DI UNA CASA DELLA SALUTE GRANDE

Funzioni_Casa_Salute

Nel 2013 la delibera Regionale della Regione E-R n.117 completava il pregresso DGR n.291/2010 (Modello organizzativo territoriale regionale fondato sulla CdS) prevedendo, almeno nelle CdS “Grandi”, strumentazioni specialistiche e diagnostiche complesse ma anche la presenza di strutture intermedie e di letti osservazionali (termine più corretto del più “discorsivo” ed ambiguo Ospedale di Comunità o OSCO).

Nel 2015 infine le linee di indirizzo regionali sancivano la partecipazione delle comunità e delle associazioni di cittadini che venivano definite “indispensabili” per il funzionamento delle Case della Salute.

Si completava così un percorso culturale teorico ed innovativo per riordinare l’assistenza di base territoriale.

Ciò nonostante si iniziavano a percepire da subito alcuni movimenti contro-riformisti al fine di recuperare un controllo burocratico-prescrittivo forse sfuggito inavvertitamente con i documenti emanati dal 2010 al 2015. Ad esempio tra il 2013 al 2015 compaiono le prime bozze finalizzate alla “prefabbricazione” dall’alto di associazioni di volontariato ingegnerizzate a tavolino mettendo così a rischio idee e intuizioni innovative caratteristiche di un volontariato libero ed autonomo e alla fine hanno consegnato alla mano paternalistica e rassicurante del potere amministrativo “controllante” almeno la parte sovra-ordinata del così detto terzo settore.

Nel 2016 con la delibera n. 388 del 2016 viene poi, improvvisamente, (a conferma delle avvisaglie percepite nel periodo 2013-2015), varata la contro-riforma di tutta la pregressa sistematizzazione innovativa sulle CdS. Il revisionismo burocratico riprende il sopravvento ed inserisce, nei documenti relativi alle CdS, normative rigide e protocolli “a silos” difficilmente conciliabili con la cultura dell’integrazione o della co-produzione multiprofessionale, multidisciplinare e multisettoriale sviluppatasi intorno al fervore creatosi con la delibera del 2010 sulle CdS.

Nel 2021 viene approvato il piano detto PNRR per rilanciare l’economia italiana dopo la pandemia. Al nostro paese vengono assegnati 191,5 miliardi: il 36,5% a fondo perduto e il 63,5% (121 miliardi) in prestito. Con la così detta Missione 6 del PNRR vengono elencati gli obiettivi di tipo sanitario relativi al piano e al finanziamento specifico.

Il DM 77 ( decreto 23 maggio 2022 del Ministero della salute) è il documento che contiene il regolamento attuativo per lo sviluppo nazionale della stessa Missione 6.

Tra le numerose indicazioni alcune disposizioni meritano forse qualche argomentazione.

L’assistenza domiciliare dovrà raggiungere percentuali richieste dalle nuove normative ma questo richiederà il superamento di qualche contraddizione operativa in quanto pare che i Distretti (benedetti come “perni” del riordino delle cure primarie dal DM77) possano paradossalmente essere la causa principale della riduzione del numero delle Assistenze Domiciliari.

Gli Infermieri di comunità in molte realtà sono una attività preziosa e perfettamente operativa da anni (NCP Nuclei di Cure Primarie infermieristiche di quartiere).

Le USCA (Unità Speciali di Continuità Assistenziali) utilissimi sostegni per la medicina di base, soprattutto nelle pandemie, inserite nei territori nel periodo covid per DPCM, sono state poi abolite, successivamente riattivate, ri-annullate di nuovo, infine, come si dice quando si vogliono tagliare i servizi, razionalizzate…

Le Cure Palliative si trascinano da anni snervanti incoerenze. Pur essendo un tipo di assistenza fondamentale e “ontologica” per la medicina generale da qualche parte si asseconda l’insano dubbio che il mmg possa “non” rappresentare il primo palliativista di riferimento per il paziente che ha esercitato la scelta fiduciaria per quello specifico medico (forse pensando proprio ad una eventuale propria terminalità). Se invece la “palliazione” deve essere istituzionalizzata come attività specialistica a se stante, con strutture riservate, con direttori, responsabili e coordinatori… bisognerebbe almeno immediatamente, seduta stante, abolire le vergognose (forse eccessivamente confidenziali) liste d’attesa (sic!).

SCHEDA RIASSUNTIVA DELLE CARATTERISTICHE DISTINTIVE TRA CdS e CdC

Il confronto “a colonne” tra le caratteristiche delle CdS con quelle delle CdC non danno l’impressione di palesare “differenze epocali” e pare che il culmine del divario stia solo nelle denominazioni (da CdS a CdC) e di conseguenza nella cartellonistica. Se poi si desidera soppesare il valore relativo all’efficacia, all’efficienza, all’organizzazione, al gradimento dei cittadini verso i servizi offerti, alla comprensione della struttura da parte della popolazione l’ago della bilancia potrebbe pendere pesantemente a favore della “Casa della Salute Grande” quando questa può beneficiare di una completa autonomia (abolizione delle aziende sanitarie e delle mega aziende e ripristino dei consorzi territoriali) nel processo decisionale e nel governo clinico.

SCHEDA RIASSUNTIVA DEL PROCESSO DECISIONALE NELL’AMBITO DELLE CURE PRIMARIE (es.: EDIFICAZIONE O RISTRUTTURAZIONE DI UNA CASA DELLA COMUNITA’ E DEL SISTEMA ASSISTENZIALE TERRITORIALE)


(Welfare di Comunità, QdS, 7 maggio 2021)

SCHEDA RIASSUNTIVA DELLE CARATTERISTICHE DISTINTIVE DEL GOVERNO CLINICO (GC)
GC AUTONOMO DELLE CURE PRIMARIE VS GC AZIENDALE ISTITUZIONALE

Come già menzionato una “comunità” si considera tale quando è composta da un gruppo di individui che vivono in un territorio limitato con caratteri comuni e reciproca dipendenza (appartenenza, solidarietà, legami sociali paritari non rigidamente gerarchizzati, senso di libertà con potestà di partecipazione alla vita collettiva). La comunità non è sovrapponibile ad una popolazione o ad una società perché in questi casi le relazioni sono più complesse, le dimensioni più vaste, meno controllabili e quindi restano più sconosciute.

Il termine “comunità” associato a gruppi, associazioni, portatori di interessi è esploso dopo la pubblicazione del PNRR. E’ diventata una parola molto diffusa, inflazionata, utopistica. Infatti la contemporaneità è caratterizzata da un individualismo economicistico e da relazioni “contrattuali” che non lasciano tanto spazio alle “comunità” tradizionali, contenute nelle loro dimensioni e accumunate da saperi, tradizioni e scale valoriali consolidate nel tempo.

Purtroppo occorre constatare che, al momento, le comunità sono smarrite, frantumate, frullate dalla globalizzazione e dai recenti avvenimenti sanitari ed economici. In questo senso il termine “Casa della Comunità” appare quindi ancor più fuori contesto, instabile e senza reali punti o radici di riferimento.

Il tema delle cure palliative, già ricordato, evidenzia l’importanza che può avere un punto di riferimento (non per forza tecnologicamente avanzato) alla fine di una esistenza umana di un assistito che sceglie fiduciariamente un dato mmg proprio per esigenze o bisogni molto riservati. La struttura sociale e le istituzioni (che dovrebbero essere modelli guida) non sono più in grado di conservare le loro funzioni tradizionali perché si sciolgono prima ancora di avere stabilizzato qualche cosa ( es.: la decennale questione delle liste d’attesa, il fallimento del progetto sulle Case della Salute, la mancanza di autocritica e di un radicale cambiamento delle élite Dirigenziali perpetue, l’impossibilità di addivenire ad una riforma radicale del SSN, l’abolizione delle Aziende, Distretti e Assessorati, l’assenza della politica e la vistosa preponderanza della finanza…).

Il risultato è la paralisi di ogni possibile azione collettiva e l’esclusione degli individui, che credono di appartenere ad una comunità, dalla partecipazione attiva alla stessa vita comunitaria.

Chi ha scritto il DM77? Perché è stato redatto in modo che potesse dare la sensazione di essere stato confezionato in favore di piccoli gruppi di élite staminali (totipotenti e onnipresenti)?

Lo sfrenato individualismo elitario è riuscito a danneggiare anche il senso stesso del bene comune.

Le comunità, quelle tradizionali a cui spesso si fa riferimento nella narrazione quotidiana, non ci sono più ed è venuta meno la loro funzione di “organo di mediazione”.

La realtà appare più popolata da gruppi individualistici ed elitari e le inevitabili eccezioni non sono in grado di cambiare la situazione attuale.

Il termine “comunità” ha perso il suo senso anche perché le istituzioni stesse testimoniano un valore unico, quello della “competizione” che diventa poi modello di conflittualità tra individui e istituzioni.

Le divergenze portano, a loro volta, alla difesa dell’interesse egoistico, all’incertezza, all’ansia, al senso di fallimento.

Emblematico da questo punto di vista è la corsa agitata per accaparrarsi un posto sul carro del “progetto Case della Comunita’” dove i gruppi di lavoro o organizzazioni sgomitano per restare a bordo subito pronti però a scendere non appena si comprenderà che non vi saranno vantaggi in solido.

La comunità non è più una finalità filogenetica ma un “mezzo” per raggiungere un fine più prosaico e per questo obiettivo non si esita a rinunciare all’originalità innovativa, spesso non allineata alle disposizioni ufficiali, per adattarsi remissivamente al mito burocratico (es.: DM 77), anche se incomprensibile, perché alla fine resta la via più facile che comunque non riuscirà mai ad attenuare contraddizioni, disuguaglianze e discriminazioni.

Le comunità potranno essere ricomposte?

In parte, se saremo in grado di essere saggi. Se saremo prudenti e in grado di generare idee innovative valide.

Per trovare delle soluzioni occorre ricominciare radicalmente da capo (riforma) con leader territoriali credibili e accreditati dal consenso (libera scelta). Nel film “Invictus” il Presidente Mandela, leader emblematico, si trova, suo malgrado, a riprendere i suoi sostenitori più faziosi dicendo “Voi mi avete scelto ed ora lasciativi guidare da me”.

I servizi (che potrebbero essere anche sovrapponibili ai diritti) vanno riportati nei quartieri e nei territori, le risorse devono ritornare paritarie, occorre restituire il maltolto, abbandonare la logica dell’economicismo statistico/numerico, quindi abolire la strutturazione attuale, i relativi documenti normativi e gli oracoli del pensiero unico. E’ determinante, promuovere la salute che può concretamente diventare ricchezza per una comunità e dare vita ad ulteriori sperimentazioni valorizzanti e a convinti stili di vita provvidenziali perché effettivamente preventivi.

Bruno Agnetti

CSPS (Centro Studi Programmazione Sanitaria).