Medicina Territoriale

Case della Salute e Case della Comunità. Uguali o diverse?

Purtroppo occorre constatare che, al momento, le comunità sono smarrite, frantumate, frullate dalla globalizzazione e dai recenti avvenimenti sanitari ed economici. In questo senso il termine “Casa della Comunità” appare quindi ancor  più fuori contesto, instabile e senza reali punti o radici  di riferimento.

10 APR -

Il termine “Casa della Salute” (CdS) contiene la specificazione di una funzione o di una attività che, si intuisce, possa essere svolta in quella struttura. Quando invece si parla di “Casa della Comunità” (CdC) il contenuto comunicativo supera l’indicazione logistica e tende a dare come acquisita la presenza di una maggiore complessità.

Bauman ci ricorda come il desiderio di comunità sia molto forte ma richieda una carica generativa naturale e “tacita” proprio per una sua intima problematicità relazionale. Di contro le “comunità” che devono farsi sentire o valere o fanno sfoggio delle loro iniziative si autoeliminano come “comunità” in quanto contraddittorie. Possono essere imprese, gruppi di studio, progetti di scopo, portatori di interessi ma non comunità.

Il DM 77 (2022 e GU n.144) definisce la CdC come struttura socio-sanitaria che entrerà a far parte del SSN: per il momento, quindi, è ancora tutto da vedere...

Il Dgr n.291 del 2010 (78 pagine) della Regione Emilia-Romagna (documento antesignano sulle Case della Salute) definisce la CdS come punto di riferimento certo per i cittadini al quale ci si può rivolgere per trovare una risposta ai propri problemi di salute. E’ un presidio distrettuale a complessità diversificata (CdS piccola-media-grande) e ogni quartiere o territorio avrebbe dovuto avere la propria CdS anche se la vera innovazione era costituita “solo dalla CdS grande.

SCHEDA RIASSUNTIVA DEI SERVIZI E DELLE FUNZIONI DI UNA CASA DELLA SALUTE GRANDE

Funzioni_Casa_Salute

Nel 2013 la delibera Regionale della Regione E-R n.117 completava il pregresso DGR n.291/2010 (Modello organizzativo territoriale regionale fondato sulla CdS) prevedendo, almeno nelle CdS “Grandi”, strumentazioni specialistiche e diagnostiche complesse ma anche la presenza di strutture intermedie e di letti osservazionali (termine più corretto del più “discorsivo” ed ambiguo Ospedale di Comunità o OSCO).

Nel 2015 infine le linee di indirizzo regionali sancivano la partecipazione delle comunità e delle associazioni di cittadini che venivano definite “indispensabili” per il funzionamento delle Case della Salute.

Si completava così un percorso culturale teorico ed innovativo per riordinare l’assistenza di base territoriale.

Ciò nonostante si iniziavano a percepire da subito alcuni movimenti contro-riformisti al fine di recuperare un controllo burocratico-prescrittivo forse sfuggito inavvertitamente con i documenti emanati dal 2010 al 2015. Ad esempio tra il 2013 al 2015 compaiono le prime bozze finalizzate alla “prefabbricazione” dall’alto di associazioni di volontariato ingegnerizzate a tavolino mettendo così a rischio idee e intuizioni innovative caratteristiche di un volontariato libero ed autonomo e alla fine hanno consegnato alla mano paternalistica e rassicurante del potere amministrativo “controllante” almeno la parte sovra-ordinata del così detto terzo settore.

Nel 2016 con la delibera n. 388 del 2016 viene poi, improvvisamente, (a conferma delle avvisaglie percepite nel periodo 2013-2015), varata la contro-riforma di tutta la pregressa sistematizzazione innovativa sulle CdS. Il revisionismo burocratico riprende il sopravvento ed inserisce, nei documenti relativi alle CdS, normative rigide e protocolli “a silos” difficilmente conciliabili con la cultura dell’integrazione o della co-produzione multiprofessionale, multidisciplinare e multisettoriale sviluppatasi intorno al fervore creatosi con la delibera del 2010 sulle CdS.

Nel 2021 viene approvato il piano detto PNRR per rilanciare l’economia italiana dopo la pandemia. Al nostro paese vengono assegnati 191,5 miliardi: il 36,5% a fondo perduto e il 63,5% (121 miliardi) in prestito. Con la così detta Missione 6 del PNRR vengono elencati gli obiettivi di tipo sanitario relativi al piano e al finanziamento specifico.

Il DM 77 ( decreto 23 maggio 2022 del Ministero della salute) è il documento che contiene il regolamento attuativo per lo sviluppo nazionale della stessa Missione 6.

Tra le numerose indicazioni alcune disposizioni meritano forse qualche argomentazione.

L’assistenza domiciliare dovrà raggiungere percentuali richieste dalle nuove normative ma questo richiederà il superamento di qualche contraddizione operativa in quanto pare che i Distretti (benedetti come “perni” del riordino delle cure primarie dal DM77) possano paradossalmente essere la causa principale della riduzione del numero delle Assistenze Domiciliari.

Gli Infermieri di comunità in molte realtà sono una attività preziosa e perfettamente operativa da anni (NCP Nuclei di Cure Primarie infermieristiche di quartiere).

Le USCA (Unità Speciali di Continuità Assistenziali) utilissimi sostegni per la medicina di base, soprattutto nelle pandemie, inserite nei territori nel periodo covid per DPCM, sono state poi abolite, successivamente riattivate, ri-annullate di nuovo, infine, come si dice quando si vogliono tagliare i servizi, razionalizzate…

Le Cure Palliative si trascinano da anni snervanti incoerenze. Pur essendo un tipo di assistenza fondamentale e “ontologica” per la medicina generale da qualche parte si asseconda l’insano dubbio che il mmg possa “non” rappresentare il primo palliativista di riferimento per il paziente che ha esercitato la scelta fiduciaria per quello specifico medico (forse pensando proprio ad una eventuale propria terminalità). Se invece la “palliazione” deve essere istituzionalizzata come attività specialistica a se stante, con strutture riservate, con direttori, responsabili e coordinatori… bisognerebbe almeno immediatamente, seduta stante, abolire le vergognose (forse eccessivamente confidenziali) liste d’attesa (sic!).

SCHEDA RIASSUNTIVA DELLE CARATTERISTICHE DISTINTIVE TRA CdS e CdC

Il confronto “a colonne” tra le caratteristiche delle CdS con quelle delle CdC non danno l’impressione di palesare “differenze epocali” e pare che il culmine del divario stia solo nelle denominazioni (da CdS a CdC) e di conseguenza nella cartellonistica. Se poi si desidera soppesare il valore relativo all’efficacia, all’efficienza, all’organizzazione, al gradimento dei cittadini verso i servizi offerti, alla comprensione della struttura da parte della popolazione l’ago della bilancia potrebbe pendere pesantemente a favore della “Casa della Salute Grande” quando questa può beneficiare di una completa autonomia (abolizione delle aziende sanitarie e delle mega aziende e ripristino dei consorzi territoriali) nel processo decisionale e nel governo clinico.

SCHEDA RIASSUNTIVA DEL PROCESSO DECISIONALE NELL’AMBITO DELLE CURE PRIMARIE (es.: EDIFICAZIONE O RISTRUTTURAZIONE DI UNA CASA DELLA COMUNITA’ E DEL SISTEMA ASSISTENZIALE TERRITORIALE)


(Welfare di Comunità, QdS, 7 maggio 2021)

SCHEDA RIASSUNTIVA DELLE CARATTERISTICHE DISTINTIVE DEL GOVERNO CLINICO (GC)
GC AUTONOMO DELLE CURE PRIMARIE VS GC AZIENDALE ISTITUZIONALE

Come già menzionato una “comunità” si considera tale quando è composta da un gruppo di individui che vivono in un territorio limitato con caratteri comuni e reciproca dipendenza (appartenenza, solidarietà, legami sociali paritari non rigidamente gerarchizzati, senso di libertà con potestà di partecipazione alla vita collettiva). La comunità non è sovrapponibile ad una popolazione o ad una società perché in questi casi le relazioni sono più complesse, le dimensioni più vaste, meno controllabili e quindi restano più sconosciute.

Il termine “comunità” associato a gruppi, associazioni, portatori di interessi è esploso dopo la pubblicazione del PNRR. E’ diventata una parola molto diffusa, inflazionata, utopistica. Infatti la contemporaneità è caratterizzata da un individualismo economicistico e da relazioni “contrattuali” che non lasciano tanto spazio alle “comunità” tradizionali, contenute nelle loro dimensioni e accumunate da saperi, tradizioni e scale valoriali consolidate nel tempo.

Purtroppo occorre constatare che, al momento, le comunità sono smarrite, frantumate, frullate dalla globalizzazione e dai recenti avvenimenti sanitari ed economici. In questo senso il termine “Casa della Comunità” appare quindi ancor più fuori contesto, instabile e senza reali punti o radici di riferimento.

Il tema delle cure palliative, già ricordato, evidenzia l’importanza che può avere un punto di riferimento (non per forza tecnologicamente avanzato) alla fine di una esistenza umana di un assistito che sceglie fiduciariamente un dato mmg proprio per esigenze o bisogni molto riservati. La struttura sociale e le istituzioni (che dovrebbero essere modelli guida) non sono più in grado di conservare le loro funzioni tradizionali perché si sciolgono prima ancora di avere stabilizzato qualche cosa ( es.: la decennale questione delle liste d’attesa, il fallimento del progetto sulle Case della Salute, la mancanza di autocritica e di un radicale cambiamento delle élite Dirigenziali perpetue, l’impossibilità di addivenire ad una riforma radicale del SSN, l’abolizione delle Aziende, Distretti e Assessorati, l’assenza della politica e la vistosa preponderanza della finanza…).

Il risultato è la paralisi di ogni possibile azione collettiva e l’esclusione degli individui, che credono di appartenere ad una comunità, dalla partecipazione attiva alla stessa vita comunitaria.

Chi ha scritto il DM77? Perché è stato redatto in modo che potesse dare la sensazione di essere stato confezionato in favore di piccoli gruppi di élite staminali (totipotenti e onnipresenti)?

Lo sfrenato individualismo elitario è riuscito a danneggiare anche il senso stesso del bene comune.

Le comunità, quelle tradizionali a cui spesso si fa riferimento nella narrazione quotidiana, non ci sono più ed è venuta meno la loro funzione di “organo di mediazione”.

La realtà appare più popolata da gruppi individualistici ed elitari e le inevitabili eccezioni non sono in grado di cambiare la situazione attuale.

Il termine “comunità” ha perso il suo senso anche perché le istituzioni stesse testimoniano un valore unico, quello della “competizione” che diventa poi modello di conflittualità tra individui e istituzioni.

Le divergenze portano, a loro volta, alla difesa dell’interesse egoistico, all’incertezza, all’ansia, al senso di fallimento.

Emblematico da questo punto di vista è la corsa agitata per accaparrarsi un posto sul carro del “progetto Case della Comunita’” dove i gruppi di lavoro o organizzazioni sgomitano per restare a bordo subito pronti però a scendere non appena si comprenderà che non vi saranno vantaggi in solido.

La comunità non è più una finalità filogenetica ma un “mezzo” per raggiungere un fine più prosaico e per questo obiettivo non si esita a rinunciare all’originalità innovativa, spesso non allineata alle disposizioni ufficiali, per adattarsi remissivamente al mito burocratico (es.: DM 77), anche se incomprensibile, perché alla fine resta la via più facile che comunque non riuscirà mai ad attenuare contraddizioni, disuguaglianze e discriminazioni.

Le comunità potranno essere ricomposte?

In parte, se saremo in grado di essere saggi. Se saremo prudenti e in grado di generare idee innovative valide.

Per trovare delle soluzioni occorre ricominciare radicalmente da capo (riforma) con leader territoriali credibili e accreditati dal consenso (libera scelta). Nel film “Invictus” il Presidente Mandela, leader emblematico, si trova, suo malgrado, a riprendere i suoi sostenitori più faziosi dicendo “Voi mi avete scelto ed ora lasciativi guidare da me”.

I servizi (che potrebbero essere anche sovrapponibili ai diritti) vanno riportati nei quartieri e nei territori, le risorse devono ritornare paritarie, occorre restituire il maltolto, abbandonare la logica dell’economicismo statistico/numerico, quindi abolire la strutturazione attuale, i relativi documenti normativi e gli oracoli del pensiero unico. E’ determinante, promuovere la salute che può concretamente diventare ricchezza per una comunità e dare vita ad ulteriori sperimentazioni valorizzanti e a convinti stili di vita provvidenziali perché effettivamente preventivi.

Bruno Agnetti

CSPS (Centro Studi Programmazione Sanitaria).


Sanità pubblica addio? Agnetti: “Come possiamo evitare di arrivare al punto di non ritorno?”

La sanità privata è ormai un sistema molto potente in tutte le regioni ed in tutte le provincie. E’ molto complesso pensare ad una sua revisione radicale. Sarebbe come affrontare le problematiche sorte con il finanziamento pubblico della Fiat ad iniziare dagli anni ’70 aggravato da fatto che, oggi, gli occupati nella così detta sanità privata sono molto superiori al numero dei dipendenti della Fiat e la diffusione logistica del privato è capillare in tutto il paese.

Molti colleghi erano lì, nei primi anni 80, quando la riforma sanitaria ( 833 del 23 dicembre 1978) iniziava il suo iter applicativo. Da allora si è passati dall’iniziale entusiasmo al disincanto rassegnato tanto che pensare a qualche cambiamento può apparire addirittura velleitario. Gli storici sanitari “boomer” sono passati dall’essere clinici attivi ed operativi a utenti se non pazienti. Mantengono tuttavia un patrimonio di conoscenze che li rende esperti perché “conoscitori dei fatti accaduti” sia nell’ambito dei professionisti delle cure che nell’area variegata degli assistiti.

Durante questo tribolato periodo numerosi medici e operatori sono stati quasi presi per mano dalle numerose pubblicazioni del Prof. Ivan Cavicchi che hanno così favorito formazione e approfondimenti in merito ai temi più critici della politica sanitaria italiana.

L’ultima fatica del Prof. Ivan Cavicchi ha nel titolo (Sanità Pubblica Addio) un termine definitivo, “addio” appunto.

Il sottotitolo riporta però una frase che tenta di individuare “la causa prima” che ha provocato la sconfortante rottura: il cinismo delle incapacità. A leggere il testo questa incapacità pare poter essere associabile ad una profonda ignoranza, soprattutto da parte dei decisori, sui fondamentali di una disciplina molto complessa come la medicina.

Nella controcopertina riemerge comunque lo spirito indomito del Prof. Cavicchi quando sostiene: “non è vero che sia impossibile o inconcepibile una sanità che funzioni, adeguata ai bisogni delle persone, giusta”.

L’analisi inesorabile e a tutto campo presentata nel testo del Prof. Cavicchi è già più che bastevole. Sono state lette su QdS ulteriori riflessioni e studi generali colti e minuziosi. E’ superfluo quindi esporre altre considerazioni complessive affidando quindi questo compito ad una sola immagine.

Spesa sanitaria pubbica in rapporto al PIL

In considerazione della esperienza accumulata nel tempo si farà soprattutto riferimento al capitolo 14 del libro del Prof. Cavicchi: Medicina Generale.

In effetti il Centro Studi Programmazione Sanitaria (CSPS) di cui il sottoscritto fa parte, si è dedicato, in questi anni, allo studio “operativo” e “di base” di quanto la Politica Sanitaria ha prodotto in merito all’organizzazione sanitaria territoriale (ACN, AIR, DM77, Metaprogetto, PNRR, delibere, intese, documentazioni, iniziative o coordinamenti ecc.).

L’attività della Medicina Generale, più correttamente, l’operatività dell’insieme degli attori che agiscono sulla scena delle Cure Primarie si svolge per la gran parte in modalità ”periferica” e di conseguenza sviluppa una cultura specifica di “confine” in quanto, a questo livello, avviene il contatto diretto con le persone, le loro peculiarità ed i loro bisogni espressi e non espressi. In questo ambito le richieste bio-psico-sociali sono molto forti.

Tuttavia è proprio a livello del territorio che si potrebbero intravedere interessanti spinte riformiste foriere di una nuova cultura sanitaria assistenziale, originale e specifica, spesso spontanea, che potrebbe affondare le proprie radici nelle integrazioni (co-operazioni) tra operatori professionali e cittadini (https://youtu.be/KtDb05WbtFI).

Il nuovo clima intellettuale riformista che originerebbe nel perimetro delle cure primarie sarebbe in grado di misurarsi con sistemi complessi rappresentati dal contesto (bisogni delle persone ed esigenze degli operatori). Si formerebbero così modelli di leadership riconosciuti che si pongono come punto di riferimento e di servizio per l’intera comunità di appartenenza.

La leadership di comunità si distinguerebbe non solo per la mancanza di strutture gerarchiche, per la flessibilità verso forme collettive o collegiali del modello, per la trasparenza e la capacità di mettersi in gioco; per la gestione serena della responsabilità condivisa; per il ruolo di testimonianza; per la valorizzazione della meritorietà ( criterio del merito) al posto della tanto decantata meritocrazia ( governo della meritocrazia), per la totale gratuità.

A tutt’oggi la “libera scelta” che caratterizza in modo unico la medicina generale e il medico di base (finché questo istituto verrà mantenuto) rappresenta una legittimazione quasi politica (non partitica) che facilità la co-operazione e la co-responsabilità tra sanitari e cittadini. Il prof. Cavicchi, nel suo scritto, liquida definitivamente il tema della dipendenza del mmg (“stupidaggine”).

Questa cultura riformista che da tempo si sta sviluppando silenziosamente a livello territoriale, resta sempre una constatazione inaspettata da parte delle Alte Dirigenze regionali e locali in quanto spesso la loro efficacia non coincide con i protocolli o con le normative istituzionali e le esigenze amministrative/economiche di controllo. Si tende quindi a scotomizzarla o riassorbirla in complicati sistemi burocratici che ne soffocano l’originalità innovativa.

Al chiacchiericcio che recentemente è nato intorno al PNRR (missione 6), alle Case della Comunità e agli Ospedali di Comunità partecipano troppi soggetti autoreferenziali (“che di base non hanno niente”). Non si considerano le esperienze che non siano perfettamente allineate ma si sommano stucchevoli esposizioni che poco hanno a che fare con gli operatori che svolgono la loro attività quotidianamente in prima linea. Nessuna iniziativa e nessun coordinamento è riuscito ancora a eguagliare quella “vera riforma” delle cure primarie rappresentata dalla storica delibera della Regione Emilia-Romagna sulle Case della Salute (GPG/2010/228) con la quale si normava la realizzazione di queste strutture.

La reale azione riformatrice riguardava solo la così detta casa della salute “Grande” in quanto ipotizzava la creazione in ogni quartiere o in ogni territorio di un complesso logistico-architettonico che potesse offrire un “contenuto” in grado di mettere a disposizione di una comunità l’intera gamma dei servizi territoriali sanitari, sociali, assistenziali, riabilitativi, di strutture intermedie, di assistenza diurna, di integrazione tra operatori e terzo settore.

Un reale servizio per i cittadini che avrebbe garantito anche la prossimità, la domiciliarità e la continuità delle cure. Le normative, i coordinamenti e le iniziative che si stanno muovendo intorno alla questione del PNRR sanitario restano tutt’ora una “mistificazione” che “non hanno niente a che fare con la comunità” (termine ormai inflazionato) e sono funzionali solo ad un ruolo prefettizio dei distretti che grazie alla narrazione collegata al PNRR tentano di recuperare una competenza da tempo evaporata.

Il fallimento dell’esperienza Case della Salute non è da attribuire a questioni economiche ma piuttosto al mancato coraggio di portare fino in fondo quel progetto che avrebbe potuto dare forma a quel clima intellettuale e culturale territoriale innovativo ed autonomo già ricordato ma poco controllabile a livello istituzionale.

Da questo punto di vista può essere molto istruttivo analizzare la Delibera GPG/2016/2253 della Regione Emilia-Romagna dove, probabilmente, può essere evidenziato un esempio plastico di contro-riforma estremamente contorto che nella pratica ha bloccato ogni possibile evoluzione innovativa delle Case della Salute “Grandi”.

L’esito negativo di questa stagione ha lasciato dietro sé profonde cicatrici individuabili in una aumentata sfiducia degli operatori nei confronti delle istituzioni e in un incremento delle differenziazioni (eufemismo) professionali ed assistenziali. Anche i recenti documenti che vanno per la maggiore dimostrano una intricata “assenza di pensiero”, la mancata semplificazione che offusca la trasparenza, un serpeggiante contro-riformismo, una evidente inapplicabilità delle norme operative (“il mmg segato in due per fare due mezzi medici”), soprattutto l’incapacità di comparazione con altri concetti e altre esperienze palesata dalla numerosa produzione “potestativa” di normative cogenti. (https://www.brunoagnetti.it/2022/05/17/cosa-fa-oggi-e-cosa-dovrebbe-fare-oggi-e-domani-il-medico-di-medicina-generale/ ).

Già nel lontano 27 giugno 2012 la stessa SISAC (Struttura Interregionale Sanitari Convenzionati ) evidenziava alcune criticità evidenziate nella stesura dei documenti ufficiali dove si confondono periodi temporali; difficoltà nella comprensione delle disposizioni; farraginosità, contraddittorietà, ambiguità… ma da allora a tutt’oggi non sembra che siano cambiate le cose.

Anche il fenomeno delle liste d’attesa e la regolamentazione amministrativa delle priorità (UBDP) desta qualche criticità e probabilmente deriva da una mancanza di fiducia istituzionale nei confronti dei professionisti. Un collega medico di base ha raccontato il seguente episodio: nel mese di gennaio 2023 ha diagnosticato ad un assistito occasionalmente una severa Insufficienza renale ( in relazione ai dati di laboratorio). Ha immediatamente provveduto a impostare una terapia adeguata associata a dieta e ad attività fisica.

Contestualmente ha provveduto personalmente, in considerazione del caso clinico, a prenotare una visita specialistica nefrologica urgente. L’appuntamento nel pubblico necessario anche per ufficializzare l’E.T. e poter ricevere i prodotti alimentari aproteici è stato fissato per metà maggio del 2023. Le liste d’attesa rappresentano la prima barriera all’accesso alle cure (quasi 4 milioni di cittadini hanno rinunciato alle cure nel 2022 e ancora nel 2023 pare che circa 2 milioni di persone siano senza medico di base).

Modelli e idee alternative per una vera riforma radicale delle Cure Primarie ve ne sono molte e lo stesso Prof. Cavicchi ne sintetizza alcune tra queste ( terza via):

- coerenza con i “valori” di riferimento ( è possibile elencarne alcuni: non maleficità, beneficienza, giustizia, autonomia, equità, qualità, trasparenza, sostenibilità, trasmissibilità, complessità, co-operazione, co-responsabilità collegiale…)

- “abolizione delle aziende” (invece che accorparle in mega-aziende) e ritornando ai consorzi per governare meglio la complessità dei malati spendendo molto meno.

- “modificazione del sistema retributivo” degli operatori puntando su gli esisti. Il sistema del governo clinico dovrebbe essere completamente scollegato da sistemi amministrativi/burocratici/economicistici; gli obiettivi verrebbero scelti, in accordo con le esigenze del SSN, anno per anno dagli stessi professionisti/operatori (clinici, assistenziali, organizzativi, relazionali, co-operativi…) incrementando così il senso di appartenenza e la condivisione delle responsabilità all’interno di una aggregazione professionale territoriale

- “produzione di salute” perché questo crea quella ricchezza in grado di bilanciare i costi della sanità.

- trasformazione del mmg in medico “autore” in grado di attuare una nuova prassi ( “opera”).

- rendere il mmg “azionista della sanità pubblica” affidandogli responsabilità dirette sul processo decisionale e sulla gestione del SSN

Come possiamo evitare di arrivare al punto di non ritorno?
La sanità privata è ormai un sistema molto potente in tutte le regioni ed in tutte le provincie. E’ molto complesso pensare ad una sua revisione radicale. Sarebbe come affrontare le problematiche sorte con il finanziamento pubblico della Fiat ad iniziare dagli anni ’70 aggravato da fatto che, oggi, gli occupati nella così detta sanità privata sono molto superiori al numero dei dipendenti della Fiat e la diffusione logistica del privato è capillare in tutto il paese. Vi sono precise responsabilità da attribuire ai decisori e alle forme di consociativismo. Alcune città dell’Emilia-Romagna, regione dove la narrazione ufficiale o i luoghi comuni porterebbero ad immaginare una maggiore diffusione del servizio sanitario pubblico, presentano una densità di strutture private sovrapponibile a quella della Lombardia.

Ciò che invece ha effettivamente condotto al capolinea di un binario morto sono stati i limiti culturali che si sono accumulati nel tempo e hanno interiorizzato un pensiero “privatocratico” generatosi proprio all’interno del Servizio Sanitario Pubblico. Da questa ”regressività” è verosimile che nessuna regione e nessuna azienda può chiamarsi fuori. E’ quindi impossibile uscire da questo flusso di torrente in piena per ricostruire una “titolarità del pubblico” con chi, in questi anni, ha coltivato un pensiero unico e debole così monotono e ripetitivo ( ossessivo?) da non permettere nemmeno un minimo di autocritica. Persistono infatti deliberazioni e narrazioni decontestualizzate ed antistoriche anche sul PNRR. Secondo la Corte dei Conti c’è un forte ritardo nella sua attuazione.

Le strutture in conto capitale sono progettate e deliberate senza mai coinvolgere nel processo decisionale (es.: sulla struttura/disegno architettonico) ex ante i professionisti che dovrebbero renderle efficienti ed anche efficaci. L’obiettivo delle aziende è molto orientata alla formazione “amministrata” degli operatori tanto che si prospetta una obbligatorietà fallimentare ( “il mmg segato in due per avere a disposizione due mezzi medici”!) per svolgere una parte del monte ore professionale tra le costruende Case della Comunità e gli ambulatori singoli o di proprietà.

Sembra che non esista la minima consapevolezza della realtà operativa quotidiana che impegna gli operatori territoriali ( mmg, altri sanitari, servizi…). Il rovinoso impianto orario ipotizzato dal DM 77 diventa impossibile da realizzare pena un ulteriore declassamento valoriale dell’assistenza di base. Il diritto alla salute come “meta-valore” in questo modo non viene rispettato.

Quale giudizio diamo delle nostre esperienze riformatrici e contro-riformatrici? A parte la già citata Riforma del 1978/ 833 le azioni riformatrici sembrano appartenere ad esperienze isolate e nascoste a causa di una qual diffidenza tra convenzionati innovativi e istituzioni. Chi riesce realizzare qualche aspetto creativo e riformatore, anche se non strutturato, desidera poter continuare ad operare silenziosamente per non rischiare di diventare oggetto di una invadenza amministrativa sapendo bene che l’esperienza pratica non potrà mai essere accolta così come viene applicata. Invece l’attività contro-riformatrice è molto attiva. E’ talmente pervasiva che nasce il sospetto che non vi sia nei decisori una piena consapevolezza di come le situazioni vengano ingarbugliate così da causare la lenta erosione della sanità pubblica. Anche la pandemia (già dimenticata) e la questione del PNRR sembrano aver prodotto ora un fastidioso ed estraneo rumore di fondo che distrae gli operatori dal compito di affrontare ogni giorno la “complessita’ del nostro tempo”.

Che giudizio diamo del nostro macroscopico anti riformismo? Inevitabilmente questa tendenza è molto forte, apparentemente inarrestabile. La globalizzazione (anche se attualmente potrebbe subire modificazioni profonde) e la finanza vincono sulla intelligibilità e sulle persone. La rassegnazione, l’individualismo, il singolarismo e il conseguente relativismo fa accettare, quasi passivamente, ogni forma di anti riformismo. Inoltre le logiche aziendali continuano ad essere concentrate su aspetti economicistici che vengono assunti come parametri meritocratici per distinguere i buoni dai cattivi clinici ( sic!).

Per quale ragione le cose in sanità restano saldamente invarianti? Le sovrastrutture di potere gerarchico non possono essere modificate. È noto a tutti che un bilancio regionale per un 70-80% interessa la sanità. È un potere enorme… qualche volta capita che incroci anche il bene comune. Il mercato, la governace, l’economicismo sono diventati sinonimo di equità, giustizia, universalità, libertà ed hanno uniformato sotto questo ombrello qualsiasi modello culturale. Il mercato rappresenta un potente impatto ma crea anche amnesie immediate. Le norme e le circolari devono avvicendarsi velocissimamente così sono in grado di catturano l’attenzione.

Non importa se sono riforme o contro riforme. Come la circolare della Sisac pare suggerire più i testi sono contradditori più creano infinite “chiacchiere”, finte attenzioni, spirali senza fine e giochi retorici. Ogni interpretazione è possibile. Quella che vince tuttavia è sempre la più forte. Che non significa che sia la più giusta.

Bruno Agnetti
CSPS (Centro Studi di Programmazione Sanitaria)

Leggi gli altri interventi al Forum: CavicchiL.FassariPalumboTuri, QuartiniPizzaMorsiani, TrimarchiGarattini e NobiliAnelli, GiustiniCavalliLomutiBoccafornoTosiniAngelozzi.

05 aprile 2023
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