L'integrazione multiprofessionale e multidisciplinare territoriale vs l'epidemia della cronicità

Elaborato multimediale utilizzato a supporto dell’intervento del relatore Dott. Bruno Agnetti durante gli stati generali della Sanità in Emilia Romagna.

A cura di Bruno Agnetti e Alessandro Chiari
Centro Studi Programmazione Sanitaria – SMI Emilia Romagna Sindacato Medici Italiani

Con la partecipazione di: Bruno Agnettti, Maria Antonioni, Barbara Bezzi, Alessandro Chiari, Eugenio Isgro, Michela Mirandola, Luisa Vastano e Giuseppe Campo.

Prima pubblicazione: anno 2014

Per la parte di temi di più forte attualità, consiglia la visualizzazione dal minuto 3:15


MMG

Tutti parlano dei Mmg ma pochi sanno di cosa parlano

Tutti parlano dei Mmg ma pochi sanno di cosa parlano

19 OTT - Gentile Direttore,
vorrei soffermarmi sulla fregola diffusa in queste ultime settimane di organizzare convegni o incontri sui capisaldi contenuti nelle note documentazioni istituzionali di “successo” relative al PNRR, al DM70, al Documento della Commissione Sanità della Conferenza Stato-regioni, al famigerato Art. 8 che risorge dalle proprie ceneri di tanto in tanto, al lunare regionalismo differenziato tutt’altro che sopito.

In questi seminari numerosi relatori ex-cathedra o le varie alte dirigenze aziendali ammaestrano su chi sia il mmg, cosa faccia e cosa debba fare senza avere spesso la minima idea, essendo laici della pratica professionale, di cosa fa un medico di base tutti i giorni (pandemia compresa).

Un collega racconta che molti anni fa aspirando, ingenuamente, ad una politica sindacale partecipativa e collaborativa in favore della professionalità dei colleghi e del miglioramento delle problematiche assistenziali aveva presentato, per le regolari vie burocratiche, 10 ipotesi di progetti innovativi (quasi piccole riforme locali) avvalendosi dalle norme che avrebbero potuto facilitare iniziative sperimentali.

Essendo una proposta che appariva nel complesso non banale, l’azienda propose un percorso di valutazione da parte di una commissione composta da tanti professionisti aziendali specialisti nelle singole materie coinvolte dalle 10 proposte.

Superata con completo successo questa fase di verifica, la pratica è arrivata al Comitato Aziendale. In quella occasione un alto funzionario aziendale ha bocciato l’iniziativa sostenendo in pubblico che l’elaborato non avesse consistenza. Il funzionario o la funzionaria non sapeva però che le idee sperimentali derivavano, pur adattate al contesto locale, da 5 corsi master svolti alla Bocconi in periodo non sospetto cioè quando l’influenza economicistica non aveva ancora invaso le aziende e portato il SSN all’attuale situazione.

Qualche anno più tardi un altro collega con le stesse caratteristiche motivazionali, dopo un lungo lavoro di studio e un coinvolgimento della propria comunità di riferimento, ha presentato all’azienda un intero progetto di Casa della Salute innovativo dal punto di vista strutturale, gestionale e organizzativo in favore di un miglioramento riformativo locale professionale ed assistenziale.

La risposta proveniente dal Distretto (quella struttura che rimane come un menhir inamovibile e dogmatico in ogni progetto di riordino dell’assistenza primaria che apparentemente dovrebbe mediare tra bisogni e produzione dei servizi ma che nella pratica rappresenta l’egemonia prefettizia del mandato regionale… senza Distretto, senza Aziende, senza Assessorati pare crearsi in alcuni commentatori un horror vacui invece di incitare ad un incremento di autonomia e responsabilità professionale) è stata di questo tipo: “no, non si può, voli troppo alto”.

In una delle tante riunioni/convegni ho avuto la fortuna di assistere ad una dissertazione esegetica di un caro amico e collega che, divertendosi, ha argomentato sul tema del “volare troppo alto”. Pare che non esistano criteri e parametri oggettivi per definire in un senso o nell’altro questa dimensione tanto che alla fine la conclusione è stata addirittura imbarazzante: e se fossero, i Distretti, le Alte Dirigenze o gli Assessorati o la Conferenza Stato Regioni ed i loro prodotti documentali a volare troppo basso?

Per ultimo non si può tralasciare una caratteristica trasversale e distintiva della attività professionale del mmg: la complessità.
Nel lavoro del medico di base tutto si muove all’interno di una complessità non completamente evasa dalla medicina basata sulle evidenze, da linee guida, protocolli o algoritmi, da norme, delibere, determine o dalle immancabili circolari. La complessità ingloba la sostenibilità, l’integrazione, la trasmissibilità, la coerenza compossibile tra riforme e valori di riferimento e sancisce a priori il fallimento delle finte innovazioni contro-riformiste (regressività). E’ per questo che non è dato per scontato il saper fare il medico e che i professionisti di questo settore sono sempre disponibili a illustrare possibili soluzioni che non siano rigidamente incatenate alla dipendenza o ad una convenzione ad invarianza organizzativa che non lascia spazio a sperimentazioni di riforma (3ª via).

La prassi e la filosofia epistemologica della medicina generale territoriale contiene aspetti estremamente multiformi in quanto la complessità intrinseca non può mai essere analizzata con modalità lineari perché le numerosissime variabili influiscono costantemente l’una sull’altra in condizioni dinamiche (anabolismo, catabolismo, entropia, entalpia, infiniti feedback…).

Una cultura normativa che non consideri questi aspetti approccerà i sistemi con quella estrema semplificazione che vanificherà, renderà non intellegibile o molto fragile ogni sua possibile ipotesi predittiva sia di processo che di esito (economicismo, appropriatezza, criteri di performance, linee guida, protocolli, algoritmi). L’unico metodo di studio efficace e coerente per osservare i sistemi complessi e i suoi comportamenti emergenti è il metodo sistemico/olistico caratteristico del medico di medicina generale che professionalmente è in grado, anche in pochi attimi, di considerare tutte le possibili variabili in gioco.

Bruno Agnetti
CSPS (Centro Studi Programmazione Sanitaria) FISMU (Federazione Italiana Sindacato Medici Uniti), Regione Emilia-Romagna

19 ottobre 2021
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Servizi territoriali post-covid

Dopo il Covid riemergono temi e problemi storici della sanità

Gentile Direttore,
tra evidenze numeriche e nuove incertezze l’emergenza sanitaria, molto lentamente, si sta ridimensionando, se è possibile sperare questo.
Oltre ai temi covid, tamponi, vaccinazioni, decessi (sempre troppi) riprende timidamente a riaffiorare il confronto tra colleghi sulle problematiche professionali: cosa significa essere medico, come sta sviluppandosi la professione nella contemporaneità, perché è necessaria una riforma radicale subito per il breve e poi per il medio periodo.

Come già altre volte è stato possibile evidenziare nella maggioranza dei casi gli elaborati che vengono pubblicati su QS hanno un notevole spessore culturale professionale ma purtroppo una scarsa o nulla influenza su coloro che governano i processi decisionali. I ragionamenti di numerosi colleghi hanno la caratteristica di illuminare e rendere concreto il mondo della sanità invaso ormai da una presunzione salottiera di apparato incapace di slanci, di sguardi che vadano oltre, di prodigi di cui avremmo un insaziabile bisogno.

Una intera pandemia tutt’ora presente pare non aver insegnato nulla. Non si possono rendere facili le cose difficili ma è inutile renderle “inutilmente” più difficili ad es.: non imparando dall’esperienza. Il consenso non potrà più contare su manovre clientelari in quanto gli apparati appaiono inadeguati alla fluidità sociale. Gli scritti rimangono quindi al momento, in attesa di una riforma radicale, esercizi letterari per una ristretta cerchia di medici che mantengono uno spirito critico, restii agli applausi al potere, preoccupati del degrado etico, che tentano di coltivare caparbiamente un punto di vista ulteriore come se fossero artisti di una avanguardia concettuale.

Il mondo della medicina generale territoriale o di famiglia è uno dei tanti rivoli della galassia sanitaria ma dove si è seminato (spero), tocca zappare.
L’aziendalismo ha dimostrato ampiamente la sua inadeguatezza. L’autoreferenzialità e l’autotutela che emergono egemoni da ogni delibera che sia regionale o aziendale ha consolidato l’impossibilità di un ricambio dirigenziale così che da numerosi anni i professionisti territoriali si devono confrontare, inutilmente, con gli stessi soggetti che volteggiano tra una azienda e l’altra di uno stesso territorio o con commissariamenti misteriosi ed inspiegabili che esprimono priorità progettuali dirigenziali sui generis (vedi il Direttore Assistenziale nuovo componente delle Alte Dirigenze AUSL oppure la fusione tra aziende territoriali e ospedaliere).

Sembra la giostra del Monopoli … puoi continuare a giocare ma alla fine girerai sempre in tondo (dopo aver cancellato per delibera le caselle scomode) senza andare mai da nessuna parte. Di tanto in tanto viene riesumato il mitico Art. 8 (Riordino delle cure primarie: modifiche dell’articolo 8 comma 1 del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 502 e successive modificazioni) tutt’ora in vigore che ipotizza il passaggio a dipendenza dei mmg.

Nello stesso tempo un’altra legge (legge Balduzzi) tutt’ora in vigore, mai abrogata, non viene mai citata. Su questo tema credo che l’intervento di Giuseppe Belleri (QS del 13 settembreMMG verso la dipendenza? Sarebbe un guaio) sia oltremodo dirimente.

Puntuale, come sempre elegante e ineccepibile, le riflessioni del Prof. Ivan Cavicchi vanno a chiarire, per chi ne avesse bisogno, le reali ragioni che portano il SSN alla privatizzazione (QS, Le vere ragioni della privatizzazione del SSN17 settembre 2021). Potrà apparire paradossale ma in alcune città della Regione Emilia-Romagna la presenza di strutture private convenzionate può superare la percentuale di privatizzazione che può essere rilevata il Regione Lombardia.

Non è il caso di ripetere i temi condivisibili messi in evidenza nell’elaborato ma in estrema sintesi agli autori dell’articolo oggetto delle attenzioni del Prof. Cavicchi (importanti attori del processo decisionale sanitario negli anni topici), potrebbe essere attribuita una nota espressione dell’avanguardia artistica concettuale “Quando mi vidi non c’ero”.

Infine non è possibile non registrare un’altra questione di interesse per il mmg (palliativista di riferimento per il proprio paziente) portata alla ribalta dall’iniziativa di raccolta firme per indire un referendum sull’ Eutanasia legale. Già ne hanno scritto proponendo riflessioni ed approfondimenti alcuni colleghi (Bruno Nicora, QS 15 settembre 2021; Marco Ceresa, QS 1 settembre 2021; Guido Giustetto, QS 3 settembre 2021).

Le informative parlano di percentuali elevate di raccolta firme pro eutanasia legale tanto da ipotizzare un grande numero di persone anche laiche che manifestano solide certezze su questo tema. Coloro che mantengono perplessità o insicurezze rischiano concretamente di diventare una minoranza (nella stagione dei diritti vi sarà uno spazio a protezione delle minoranze?).

Pietro Cavalli con il suo pezzo intitolato “Il dovere morale del medico di procurare la morte” QS, 1 settembre 2021 ci offre considerazioni disamanti, intense e acute (salti “mortali” verosimilmente irrealizzabili) che lo stesso Cavalli definisce meno rilevanti (sic!) e più pragmatiche rispetto ad altre importanti discussioni etiche/deontologiche.

Bruno Agnetti
CSPS (Centro Studi Programmazione Sanitaria) FISMU (Federazione Italiana Sindacato Medici Uniti), Regione Emilia-Romagna

20 settembre 2021
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Eutanasia, referendum e legislazione. Fondamentale il rapporto medico-paziente

(Argomenti, Gazzetta di Parma, Domenica 4 Luglio 2021)

Riprende la raccolta firme al fine di indire un referendum per rendere  completamente legale o depenalizzata l'eutanasia. Ci si trova tuttavia ancora in piena pandemia ed è tutt’ora bruciante il disastro bellico subito e la mancata elaborazione di una infinità di addii.
Le coscienze sono ancora scosse.

Dal punto di vista normativo la raccolta firme si inserisce nel tema dei diritti civili che coinvolgono profondamente l’etica di ognuno di noi. Qualsiasi sarà il risultato di questa azione se alla raccolta firme seguirà un referendum e poi una legge gli organizzatori saranno certi di aver arricchito la vita sociale di un diritto in più. Coloro che non condividono questo diritto  considereranno di essere stati espropriati di alcune certezze in merito al mistero che avvolge nonostante tutto alcuni aspetti della nostra vita umana.  Forse non c’è tema sui diritti civili effettivamente esigibili più divisivo di questo. Sorge spontanea una domanda: "Quante DAT (Disposizioni Anticipate di Trattamento)  sono state formalmente depositate  negli uffici di competenza dopo l’approvazione della legge del 2017?".  Forse la nostra società, dopo la terribile esperienza del covid, meriterebbe probabilmente  una grande stagione di pacificazione che potrebbe favorire  il pieno utilizzo delle risorse messe a  disposizione per la ripresa che dovrebbero corrisponde a tre volte quello dello storico piano Marshall.

A fronte di un sereno rapporto con il mistero «sora nostra morte corporale»  indicato dai  mistici l’eutanasia resta tuttavia un diritto molto difficile da reggere. L’atto eutanasico non ha orizzonti.  Solo il nulla. Il nulla è il nulla.

Lo stesso Dio biblico che mette alla prova il suo fedele
favorito ad un certo punto ferma la mano di Abramo. Ma nulla può fermare il
nulla. 

In Canada l’eutanasia è stata legalizzata da poco e già nella letteratura medica (mercatornet) si può leggere che questa pratica ha comportato un significativo risparmio per le casse dello stato tanto che si ipotizza che, se in Canada l’eutanasia si diffondesse ai livelli di Belgio e Olanda, il SSN risparmierebbe fino a 139 milioni di dollari all’anno dovendo curare 8.000 pazienti in meno (in assenza di un adeguato sistema di cure palliative).

In Belgio i minorenni possono accedere all’eutanasia. Non ha
importanza il parere dei genitori. Sono gli esperti e i magistrati a decidere.

Siamo proprio sicuri che in questo campo, tutt’oggi
misterioso come è la morte, si possa ottenere giustizia, equità, imparzialità
da un sistema legislativo/giudiziario?

Lo stesso Bauman considera l’eutanasia un prodotto del
disagio arrogante della post modernità occidentale che nel tentativo di
sopprimere o nascondere la morte cerca di padroneggiarla. Invano.

Cosa si intende per eutanasia (dolce morte)?

C’è l’EUTANASIA PASSIVA che consiste nella sospensione delle
cure necessarie per sopravvivere. Questa pratica è tutelata dal punto di vista
normativo dalla Costituzione e dalla Legge del 2017 (che considera come terapie
oggetto di possibile rifiuto anche l’idratazione e la nutrizione).

C’è la così detta EUTANASIA ATTIVA che consiste in un intervento
medico di somministrazione di un farmaco letale ad un “paziente”che
ne faccia richiesta. Questa pratica è vietata dal Codice Penale.  C’è una
azione molto vicina all’EUTANASIA ATTIVA che è il SUICIDIO MEDICALMENTE
ASSISTITO dove i sanitari mettono a disposizione del “paziente”gli strumenti
per togliersi la vita ed è quindi il “paziente” stesso che compie l’ultimo
gesto.  Da questo punto di vista la sentenza della Corte Costituzionale
del 2019, nota come sentenza Cappato, ha di fatto legalizzato il SUICIDIO
MEDICALMENTE ASSISTITO tanto che proprio in questo mese di giugno è stata
applicata  ad un “paziente” che ne ha fatto richiesta ad  Ancona. La
sentenza della Corte Costituzionale quindi depenalizza il SUICIDIO MEDICALMENTE
ASSISTITO fatto salvo 4 condizioni:

  • La capacità del paziente di intendere e volere
  • La presenza di una patologia irreversibile (epistemologicamente  questo tema resta irrisolto se si pensa alla questione biologica dell’anabolismo e del catabolismo cellulare continuo attivo già dal primo minuto di vita che ricerca vanamente un equilibrio stabile tra  entropia (disordine) ed entalpia (stabilità) nei sistemi  biologici
  • La presenza di una grave sofferenza fisica o psichica (è evidente come questo termine resti molto soggettivo e contestuale)
  • La sopravvivenza è garantita da trattamenti a sostegno delle funzioni vitali

Secondo gli organizzatori il referendum viene richiesto proprio perché questa sentenza  e soprattutto il 4 criterio escluderebbe  alcuni “pazienti”, che non usufruendo  di trattamenti di sostegno delle funzioni vitali,  dalla possibilità di richiedere il SUICIDIO MEDICALMENTE ASSISTITO perché   questa azione in questo momento non assolverebbe al 4 criterio già ricordato e comporterebbe  quindi  reato  di omicidio  del consenziente  o istigazione o aiuto al suicidio  puniti dall’art. 579 e 580 del Codice Penale.

La raccolta firme per poter indire il referendum si propone
quindi di depenalizzare completamente il SUICIDIO MEDICALMENTE 
ASSISTITO  indipendentemente dai 4 criteri  richiesti dalla Sentenza 
della  Corte Costituzionale  istituendo cosi l’EUTANASIA ATTIVA 
non punibile come  omicidio  con l’eccezione dei seguenti 3 criteri:

  • Persone minori di 18 anni
  • Persone inferme di mente o che abusano di sostanze psicotrope
  • Persone il cui consenso sia stato estorto con violenza o minaccia o suggestione o carpito con l’inganno (siti internet). Il consenso come è noto prevede il ricorso al consenso informato e/o all’utilizzo del TESTAMENTO BIOLOGICO meglio conosciuto come DAT Disposizioni Anticipate di Trattamento.

Questo ultimo elenco di criteri di “esclusione”
inevitabilmente porta a riflettere sui giovani e sul disagio che spesso
colpisce quell’età che va dai 10 ai 19 anni e che l’OMS definisce adolescenza.

La libertà di decidere per il proprio fine vita, soprattutto
in età giovanile ed adolescenziale, sconfina in un’area immensa, difficilissima
e in parte sconosciuta che coinvolge  l’ambito  generalmente 
indicato come il dolore psichico.

Come la clinica è in grado di poter intervenire sul dolore e
sul prendersi cura del fine vita con le cure palliative così è in grado di
farsi carico del disagio adolescenziale che è una condizione potenzialmente
mutevole. Ciò che serve quindi davvero sono strutture adeguate che siano in
grado di fornire risposte concrete.

Quando un adolescente manifesta il desiderio di morire
postando ad esempio questo pensiero su una chat occorre intervenire
immediatamente ( molti ricordano il fenomeno della blue Whale che per qualche
tempo, dai social, istruiva i giovanissimi a raggiungere il suicidio 
attraverso un percorso di sfide  autolesionistiche attraverso una
desacralizzazione dell’esistenza ed una spettacolarizzazione della morte).

E’ immaginabile cosa significhi in risorse umane e materiali
organizzare reali prese in carico di queste persone per non favorire la morte
ma per guarire dal desiderio di morte a causa del sentimento di angoscia o
panico che pervade le loro menti.

Desta non poca meraviglia l’utilizzo che  viene fatto nei testi  che trattano di eutanasia del termine “paziente”.  Dopo anni  di secolarizzazione e  relativismo dove sono stati proposti molti termini per “significare” il rapporto  che si instaura tra la persona  che si rivolge al medico e il professionista  stesso: soggetto, assistito, utente, cittadino, fruitore, cliente …  improvvisamente ritorna il termine “paziente”. E noto che il rapporto medico-paziente è di tipo fiduciario, autonomo ed è questa dote che guida a volte per una  intera vita  questa particolare  relazione  anche nelle scelte e nelle decisioni terapeutiche. L’eutanasia invece esige un rapporto legale/normativo che richiede una istanza ed una risposta che alla fine è tecnicistica. Si annulla la relazione per l’invasione di campo burocratica. Da questo punto di vista il termine “paziente” pare non essere completamente adeguato ad una trattazione relativa all’eutanasia.  


Direttore Assistenziale: come abbiamo fatto senza questa figura apicale fino ad ora?

26 LUG - Gentile Direttore,
quando si avvicina agosto (meglio se il 14) o dicembre (meglio se il 24) l’esperienza insegna che la tecnocrazia monocratica regionale o nazionale (o chi per esse) puntuali come una cambiale o una bolletta (con gli immancabili oneri aggiuntivi per la medicina generale) determinano modifiche gestionali simili a quelle testè annunciate dall’Assessorato alla Sanità della Regione Emilia-Romagna.

Dopo la storica e forse inimitabile delibera sulle Case della Salute del dicembre del 2016, quest’anno l’Assessore Regionale Donini ha dato il via alle grandi manovre per nominare la figura del Direttore Assistenziale all’interno dell’Alta Dirigenza delle aziende sanitarie.

L’impareggiabile delibera sulle Case della Salute del 2016 ha prodotto il risultato di una paralisi completa del programma assistenziale territoriale svolto attraverso gli strumenti delle CdS a causa di un testo organizzativo incomprensibile, fumoso e borioso che ha ostinatamente rifiutato il confronto e la condivisione conclusiva con i professionisti interessati. Infatti la delibera del 2016 ha creato, se possibile, ancor più differenziazioni professionali ed assistenziali tanto che il PNRR ha “dovuto” modificare almeno la denominazione del progetto strutturale in “conto capitale” con il termine Case della Comunità.

La sostanza non cambia in quanto ciò che conterebbe effettivamente è il “conto corrente” sulle risorse umane ma utilizzando un altro vocabolo ed un nuovo acronimo si è tentato di posticipare il verdetto fallimentare sulle Case della Salute nonostante il radioso esordio (2010) proprio in Emilia-Romagna ed in particolare nella AUSL di Parma. E’ poi mancato la capacità ed il coraggio di innovare e la delibera de 2016 ha definitivamente affossato le potenzialità di sviluppo e di riforma. La recente Mozione del Consiglio Nazionale della FNOMCEO del 23 luglio 2021 ha espresso poi, chiaramente, l’ennesimo parere pesantemente negativo anche sul disegno delle Case della Comunità contenuto nel PNRR.

L’iniziativa dell’Assessorato alla Sanità è stata definita un “discutibile maquillage organizzativo” e ha rimediato una richiesta di dimissioni dell’Assessore stesso (… “a tanta protervia, manifesta miopia e incapacità di svolgere un ruolo istituzionale, l’unica parola che ci sentiamo di opporre è “dimissioni”, subito, senza se e senza ma”) da parte di numerose sigle sindacali. Forse l’Assessore ha confuso l’apparente semplicità sanitaria (“iniziativa che apre l’ennesimo poltronificio ad alto costo”) con la sua “suprema sofisticazione” organizzativa territoriale e professionale che ancora una volta pare spiazzare i verticismi delle piramidi decisionali.

I commenti apparsi su QdS sono stati numerosi: svariate sigle sindacali hanno stigmatizzato le strane manovre relative alla raccolta firme ”spontanee” a sostegno del progetto dell’Assessorato; gli Ordini dei Medici della Regione hanno bocciato l’iniziativa; molti singoli colleghi hanno espresso le loro preoccupate perplessità; “…certi metodi di ricerca del sostegno plebiscitario…ricordano tristissimi tempi passati, non degni della storia di questa regione” (OOSS ospedaliere e territoriali); “ approfittando forse della confusione pandemica,( la Regione ndr) decide di istituire nuove figura apicali e conseguenti nuove strutture ” (Pietro Cavalli).

Non è necessario quindi in questa sede ripetere argomentazioni già pubblicate da vari commentatori anche perché, come gli eventi dimostrano da anni, ci si trova comunque sempre in ambito di “esercizi letterari” che possono incuriosire qualche lettore di nicchia ma che non sono in grado di delineare nessuna influenza nei confronti degli apparati monocratici verticistici e decisionali di un Servizio Sanitario che lentamente ma inesorabilmente scivola verso la privatizzazione anche della medicina territoriale.

“E’ del poeta in fin la meraviglia” apprendere comunque ora, nell’estate 2021, in piena pandemia (l’emergenza sanitaria è stata prorogata fino a 31dicembre 2021 così come lo smart working di uffici e funzioni collegabili all’ambito sanitario) che in tutti questi anni il Servizio Sanitario ha marciato senza questa nuova figura apicale.

Di norma sul territorio i medici di medicina generale da anni cooperano in piena armonia con gli infermieri territoriali nei così detti NCP (Nuclei di Cure Primarie) e dimostrano, quotidianamente insieme, una capacità organizzativa in grado di risolvere autonomamente problematiche impreviste proprio perché medici e infermieri operano in team paritari e nel reciproco rispetto. Da questo punto di vista, modificando i punti di riferimento e di co-operazione l’ipotizzata Direzione Assistenziale potrebbe generare confusioni operative e focolai di conflittualità professionale nell’attività assistenziale territoriale: di questo non se ne sente certo il bisogno.

Attualmente in Regione il Responsabile del Servizio Assistenza Territoriale (la funzione denominata anche “Direzione generale cura della persona, salute e welfare. Servizio di Assistenza Territoriale” è stata da anni ricoperta da Antonio Brambilla e poi, per un breve periodo, da Luca Barbieri) è Fabia Franchi già Direttore dell’Azienda di Casalecchio di Reno, infermiera e caposala.

In ogni AUSL e AO le funzioni di quello che ora si intende far rientrare nel ruolo del Direttore Assistenziale (componente dell’Alta Dirigenza) è da sempre stato svolto dal Direttore Sanitario.

Ogni Azienda include già ora, tra i propri responsabili, il Direttore del Servizio Infermieristico e Tecnico che sovraintende una struttura complessa.
Infine l’Azienda Ospedaliera/Universitaria di Parma ha immediatamente aderito alla sollecitazione dell’Assessorato alla Sanità deliberando in data 23 luglio 2021 l’assunzione di 9 dirigenti le Professioni Sanitarie: due Dirigenti delle Professioni afferiranno alla Direzione Sanitaria (verosimilmente in staff) e sette Dirigenti delle Professioni Sanitarie sono riservati all’assetto gestionale organizzativo dei singoli Dipartimenti aziendali ( non è chiarito nella delibera se dirigeranno strutture semplici o complesse).

L’obiettivo principale è quello di consolidare gli aspetti organizzativi in considerazione dell’unificazione delle due aziende AUSL e Ao tanto che la stessa designazione delle Dirigenze Professionali viene ritenuta “essenziale” per la regia del Dipartimento Assistenziale.

Bruno Agnetti
CSPS (Centro Studi Programmazione Sanitaria) FISMU (Federazione Italiana Sindacato Medici Uniti)
Regione Emilia-Romagna

26 luglio 2021
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Management “sanitario” o management “per la salute”

21 GIU - Gentile Direttore,
la citazione del professor Borgonovi relativa alla scritta postata sulla maglietta di un giovane che partecipava ad un incontro religioso è senz’altro di grande effetto “Dio esiste. Rilassati. Non sei tu”, ma teologicamente non è senza imprecisioni. Infatti secondo Genesi 1,26 “Dio creò l’uomo a sua immagine, a immagine di Dio lo creò”.
 
C’è da supporre che questo uomo qualche cosa orientato al bene comune dovrebbe farlo. Il tema però ci porterebbe troppo lontano dalla questione “aziendale” in sanità. Il termine “azienda sanitaria”, per come percepiscono le dinamiche profonde e spesso incomprensibili i così detti clienti interni, è assimilato a strategie di risparmio esasperato, ideologico così come è diventata funzionale, a questo obiettivo economico, l’organizzazione piramidale monocratica sottostante. La ipotizzata complessità “di persone, con persone e per le persone” si è purtroppo smarrita in una dilettantistica e semplicistica creazione dottrinale degli organigrammi progettati e realizzati ormai da troppi anni e intrecciati con filastrocche di parole magiche dimenticate a memoria.

Forse una azienda, soprattutto se pubblica, dovrebbe essere a servizio di una impresa (ad es.: individuale come può essere l’attività del medico di base che tipicamente è un sistema aperto che scambia le proprie risorse continuamente con l’ambiente per perseguire lo stesso obiettivo: produrre un valore detto benessere o salute - vedi albero Wonca -) mai il contrario pena la creazione di una delle tantissime contraddizioni presenti nel SSN e soprattutto nei SSR.
 
Un sistema monocratico è in piena contraddizione conflittuale con i sistemi aperti che hanno la tendenza bio-psico-sociale a perseguire una “certa” stabilità che tende ad autoregolarsi in favore della persistenza. Lo stato di equilibrio però non viene mantenuto nemmeno per un secondo. Si ricrea quindi un nuovo disordine (entropia) che poi ricerca immediatamente un’altra sua staticità (entalpia). E così via per tutta la vita.
 
Ogni essere vivente svolge questa continua “vibrazione” tra catabolismo e anabolismo, rinnovandosi continuamente: non è più quello di qualche secondo prima e non è ancora quello che sarà dopo. Ora è un’alta cosa. La mancanza di un continuo feedback (che potremmo indicare, all’interno di una organizzazione aziendale piramidale monocratica, carenza assoluta di autocritica) crea disordine organizzativo, gestionale e un clima relazionale non ottimale. E’ nota la famosa frase di lord William Thomson I barone Kelvin che non si può migliorare ciò che non si può misurare anche se molte misurazioni “dogmatiche” sono avvenute nei decenni recenti sotto la furia della globalizzazione e dell’aziendalizzazione dimenticando, nella sanità, molte altre aree dimensionabili.
 
La difficoltà di stimare dei valori non dovrebbe rallentare la ricerca in questo campo. Credo che l’etica, l’equità, la morale, la deontologia, la filosofia sanitaria, l’epistemologia e, non per ultima una laurea ad honorem proprio in medicina, rientrino di diritto nell’ambito dei valori (estrema sintesi del curriculum del Prof. Ivan Cavicchi). Sodalizio commovente e mirabile che espone senza dubbio la cultura assistenziale e territoriale in un’area non perfettamente commensurabile ma che è a sua volta la quinta essenza del vero welfare di comunità, giunzione anche estrema tra la capacità produttiva del mmg (impresa autonoma singola o in aggregazione) e una spiritualità o laica religiosità profondissima. Così come altrettanto intensa e credente è la proposta alternativa all’aziendalismo di Zamagni.
 
A questo punto si potrebbe anche riflettere sulla capacità che alcune Università di Economia hanno avuto in questi decenni di influenzare il SSN ed in particolare quello di alcune regioni.
 
Personalmente, in tempi non sospetti e proprio all’inizio dell’esperienza Cergas, ho seguito, autofinanziandomi, numerosi corsi manageriali e master, per tentare, inutilmente, di portare nella mia azienda un po’ di cultura meritoria a fronte di tanta meritocrazia autoreferenziale. Le certezze granitiche non hanno mai lasciato spazio di manovra alcuna. E quindi si sono accumulate le contraddizioni che tutt’oggi tutti i medici di base hanno sotto i loro occhi.
 
L’Ausl della regione che vede sul suo territorio più Case della Salute di qualsiasi altra provincia che però trascina con se una differenziazione assistenziale e professionale ; che ha raggiunto performance di risparmio farmaceutico tra le migliori; che ha collaborato a lungo con Università Economiche per formare i propri dirigenti e i professionisti al “management sanitario”; che ha prodotto i così detti Profili di Nucleo con l’appoggio di Università straniere; che ha promosso progetti di ecografia generalista ( anche se per pochi); che si avvale di numerosi consulenti scelti tra i mmg dall’alta dirigenza… questa Ausl è stata commissariata nell’intera alta dirigenza durante la prima ondata pandemica senza che la popolazione o i professionisti sappiano ancora il perché e pare che l’obiettivo più importante, sempre in tempo di pandemia e di vaccinazioni, sia l’unione tra l’Azienda Usl e l’Azienda Ospedaliera/Universitaria e la principale preoccupazione sia, nelle nomine, quella di assicurare la continuità in momenti che necessitano di forti discontinuità.
 
Privilegiare chi vuole innovare in questi tempi dovrebbe essere imperativo.
 
Bruno Agnetti
CSPS (Centro Studi Programmazione Sanitaria) FISMU (Federazione Italiana Sindacato Medici Uniti), Regione Emilia-Romagna

21 giugno 2021
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Mascherina

Il Pnrr è un piano economico in conto capitale non è una riforma del Ssn o delle cure primarie

Gentile Direttore,
ogni comunità (compresa quella dei medici) tende istintivamente a porre in atto iniziative (politiche/sindacali) per indicare migliorie collettive tentando così di orientare il governo (ad es.: della sanità nazionale o regionale o locale). Inoltre ogni cittadino (o medico) può esprimere la sua aspirazione a modificare ciò che considera una inefficienza amministrativa o gestionale e può tentare di conseguenza, politicamente, di sostituire gli attuali alti dirigenti se considerati inadeguati.

Il covid ha insegnato molte cose e al netto di tutte le narrazioni giustificanti, numerose istituzioni sanitarie nazionali, regionali e aziendali hanno palesato fallimenti organizzativi.

L’attuale situazione sanitaria origina dal lontano 1978 (43 anni fa) con la legge 833 che istitutiva il Servizio Sanitario Nazionale superando il sistema assicurativo-mutualistico allora vigente con l’intenzione di costruire e strutturare una sanità pubblica universale, uguale ed etica.

Negli anni successivi, in rapida successione, si assiste ad una florida attività legislativa minuziosamente orientata ad una perseverante limitazione degli spazi considerati eccessivamente flessibili e ampi individuati nella 833 da solerti e lungimiranti burocrati. Lentamente ma inesorabilmente i principi cardine dell’associazione di categoria allora unica (es. estremamente semplificato: orario/salario) svaniscono a fronte di una nuova organizzazione burocratica collegata ai ruoli e alle funzioni in grado di creare addirittura un nuovo ceto medio che piano piano occupa lo spazio trascurato dai professionisti della sanità.

Con il DL 502/1992 (aziendalizzazione come tributo all’idolo della globalizzazione così come le fusioni aziendali calate dai vertici ) e il DL 517 del 1993 si dà inizio alla fabbrica che costruirà l’enorme piramide del Servizio Sanitario Regionale che troverà il suo completamento con la L.3 del 2001 (riforma del titolo V della Costituzione).

La complessa produzione normativa e deliberativa delle singole Regioni e delle Ausl che seguono questi momenti topici rendono ancora più impenetrabile, inaccessibile, imponente la piramide monocratica spesso autoreferenziale.

Le premesse contengono comunque una loro fragilità celata dalle altisonanti normative che non hanno nulla a che fare con i bisogni espressi ed inespressi dai clienti interni ed esterni infatti, secondo il parere di Pietrangelo Buttafuoco, le regioni rappresenterebbero enti inutili nonché dannosi (per via dell’ingorgo burocratico e legislativo) nati per millimetrici calcoli di consociativismo. Nello stesso tempo il bilancio più importante di una regione è diventato quello sanitario che “cuba” a tutt’oggi il 70-80% dell’intero rendiconto.

Era inevitabile che qualche nodo molto ingarbugliato prima o poi arrivasse a bloccare il pettine.
La pandemia ha svelato quello che avrebbe dovuto essere e che invece è stato.

La piramide continuerà comunque ad essere solida, popolata da numerose persone, da funzionigrammi ed organigrammi. In questa situazione è praticamente impossibile riuscire ad innovare o a partecipare in modo attivo o intervenire da protagonisti nel processo decisionale (dalla ideazione, alla progettazione, alla sperimentazione, alla rendicontazione…) in quanto la protezione autoreferenziale del “monumento” lo impedisce. La Conferenza Stato-Regioni assomiglia ad un parlamento a sé stante che svolge tutte le funzioni tipiche di un consesso decisionale completo mentre pare che il Ministero della Salute e il Parlamento vengono coinvolti a processo quasi terminato.

I comitati consultivi locali, le Conferenze socio-Sanitarie territoriali hanno dimostrato un grado di partecipazione e di influenza sui processi decisionali istituzionali che sembrano praticamente inesistenti. Così come la tanto declamata governance non appare altro che un puro atto di governo monocratico grazie alla continua produzione di norme o delibere finalizzate soprattutto a rinforzare la struttura burocratica amministrativa già esistente.

Le missioni “sanitarie” (5 inclusione e coesione; 6 salute) del PNRR non comporteranno modifiche o riforme sostanziali essendo componenti di un piano con le caratteristiche dell’intervento economico classico per forza di cose orientato ad iniziative in conto capitale (una tantum) nella speranza che il possibile enorme sforzo strutturale-architettonico-ingegneristico modifichi in senso virtuoso il PIL.

Poi eventualmente si potrà pensare a innovazioni che incidano sulla spesa corrente (risorse umane o piante organiche) ma in questo caso sarebbe necessario avere in mente un modello innovativo già sperimentato nel coinvolgimento della popolazione e nei rapporti paritari (es.: welfare di comunità).

Forse in questo senso potrebbe essere interpretata la proposta del prof. Ivan Cavicchi che, nell’impossibilità di poter assistere ad una vera riforma, ipotizza almeno di “sbaraccare” le aziende e di mettere in piedi i consorzi per la salute delle comunità (vecchie Usl?) al fine di sperimentare davvero una gestione partecipata tanto dai cittadini che dagli operatori dei servizi sanitari territoriali.

Bruno Agnetti
CSPS (Centro Studi Programmazione Sanitaria) FISMU (Federazione Italiana Sindacato Medici Uniti), Regione Emilia-Romagna

31 maggio 2021
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Welfare di comunità

Welfare di Comunità: sistema gestionale innovativo e completamente pubblico

Gentile Direttore,
ogni volta che il Prof. Cavicchi scrive un suo intervento conduce per forza di cose a riflettere in modo inatteso su temi che eventualmente sono già stati enunciati in altre occasioni. In uno dei suoi ultimi articoli (Il sogno di una riforma della sanità si infrange sulla “Missione 6” del Recovery Plan) il prof. Cavicchi concludeva la sua riflessione con una affermazione perentoria: se non si riconosce che la tragedia è immane e si continua a lamentarsi e ad offendersi per i graffietti senza accorgersi che il mondo crolla si può diventare enti “immorali”.
 
Narrazioni, episodi, esperienze, rendicontazioni in questo senso possono essere numerosissime ed emergeranno tutte al momento opportuno.  Pare proprio che i “padroni del forno” non si stiano rendendo conto di ciò che capita e l’unica cosa che sanno fare è serrare in fretta la bottega (si preoccupano delle mega-aziende iniziative  solo amministrative basate su documenti  normativi del secolo scorso e, in questo periodo, accorpano ruoli e funzioni dirigenziali con il rischio che i compiti specifici vengano svolti in modo demotivato quando, proprio ora, i rapporti con il sociale rappresentato dai clienti interni ed esterni sarebbe fondamentale per preservare la professione da una regressione irreversibile). Purtroppo credo che molto presto avremo numerose occasioni per riprendere il tema. 
Caro Prof. senz’altro molti guai partono dal “condottiero” ma anche le aziende e le regioni consumano tutte le loro energie per creare gineprai impenetrabili.
Per tornare a bomba, conosciamo molto bene la definizione nata nel 2010 con delibera regionale delle Case della Salute (la Ministra Turco aveva emanato un decreto ed un finanziamento sul tema nel 2007). Anche a causa di una infelice ulteriore delibera regionale del 2016 la potenzialità insita nel concetto originale di “Casa della Salute” è naufragata miseramente per altro procurando gravi differenziazioni professionali ed assistenziali… in questo caso i poliambulatori Inam sarebbero stati meno distruttivi!
 
Senza un vero modello ampiamente condiviso, che parta da un confronto e da un processo decisionale civico non c’è connotazione ma solo propaganda. Il poeta canta “… credo che ci voglia un Dio e anche un bar… per dare una identificazione, un senso di comunità, una empatia silenziosa ai 120.000 morti contati fino ad oggi. Questo numero sembra essere considerato inevitabile e trasparente!
 
Le comunità sono state frantumate, spezzettate, frullate dalla globalizzazione e tuttavia si continua a progettare le mega-aziende sanitarie su disegni normativi del secolo scorso! Anche le parrocchie si sono svuotate così come le chiese impregnate anch’esse dal singolarismo e dal relativismo. Queste realtà (comunità) hanno ricevuto l’ultimo scossone con la  chiusura dei piccoli presidi sanitari territoriali che rappresentavano comunque punti di riferimento e di identificazione. Ora proprio coloro che hanno partecipato alla operazione “chiusura dei piccoli presidi territoriali” vorrebbero diventare paladini delle Case della Comunità.
 
Solo qualche paese o piccolo centro, meglio se in montagna, isolato per quel  tanto che basta, sembra mantenere una identità e vivere un sentimento di comunità solidale.
 
E’ vero, come ricorda il Prof. Cavicchi, che per tentare una strada di innovazione  (e purtroppo non di vera riforma ) qualcuno si è rivolto alla teoria di riferimento del “welfare di comunità” molto tempo prima che nascesse il movimento “prima di tutto la comunità” e ben lontano da ipotizzare la “Casa della Comunità” come effettivo modello.
 
E’ altrettanto vero che entro la teoria del welfare di comunità  si  ricerchi una vera e diversa gestione che superi completamente e totalmente il fallimentare sistema aziendale pur mantenendo una struttura completamente e totalmente pubblica: il welfare di comunità (non welfare aziendale né tanto meno Case della Comunità)  ma un metodo gestionale pubblico che coinvolge le comunità (dove ci sono) oppure che partendo dalla sanità possa ricrearle, con molta fatica, dove queste sono state distrutte.  Il covid dovrebbe aver insegnato qualche cosa ma la burocrazia e le piramidi gerarchiche sono più forti delle pandemie.   
 
Il Prof.  Cavicchi sostiene con verità che da anni il mondo cattolico sta tentando di inserirsi nella sanità (welfare di Comunità, processo decisionale, sussidiarietà circolare, reciprocazione… temi da tempo trattati dal Prof. Stefano Zamagni).  Il motivo che potrebbe sottendere a questa incursione, per altro con una infinità di radici storiche, può ritrovare la giustificazione nella carenza da parte del sistema pubblico di una piramide gerarchica di criteri etici e morali fondamentali che sono invece reperibili nella tradizione religiosa (equità, meritorietà, qualità organizzativa, trasparenza, sostenibilità, trasmissibilità, consenso, gradimento, apprendimento, autonomia, complessità, assenza di regressione e contraddizioni, co-operazione, cambio di genere nella medicina generale del territorio…).
 
Infine non sarà una vera riforma ma è vitale un ritorno alle USL. E’ ormai necessario abbandonare le Ausl (aziende) che hanno abbondantemente dimostrato la loro inconsistenza. L’organizzazione territoriale sanitaria deve ritornare ai così detti consorzi per la salute delle comunità, pubblici, a conduzione generale politica ma attribuita a personaggi della vita politica locale, bel conosciuti dalla stessa comunità, che si possono trovare al bar o per strada e che eventualmente abitano proprio vicino a casa nostra e dove il controllo e le responsabilità siano realmente di comunità. 
 
Questo  potrebbe essere un ritorno al futuro cioè una visione generale innovativa per un periodo di almeno 5-10 anni (salvo riforma).
 
Bruno Agnetti
CSPS (Centro Studi Programmazione Sanitaria) FISMU (Federazione Italiana Sindacato Medici Uniti), Regione Emilia-Romagna

07 maggio 2021
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