“Comunità”, termine inflazionato?
08 APR - Gentile Direttore,
“In quel paese che sorge in qualche angolo dell’Italia… nella pianura del Po… ciascuno lotta a suo modo per costruire un mondo migliore… e qui accadono cose che non accadono in nessuna altra parte del mondo…”. Si diceva così nel film (1952) tratto dal romanzo di Giovannino Guareschi, “Don Camillo”.
Il termine “comunità” diventa dominante, in particolare nelle alte amministrazioni e nelle alte dirigenze, (salvo realtà germogliate nel volontariato in tempi non sospetti dopo lunga meditazione e condivisione) dopo i suggerimenti contenuti nel PNRR. Risente di contingenze e di modifiche interpretative e, per questo, è poco autorevole: non ha avuto il tempo di generare una narrazione veritiera. Non crea coraggio. E’ disfunzionale. Non crea comunità e viene percepita come un surrogato intellettuale che offre un finto senso di identità a buon mercato.
Non è il modello di cure primarie del Brasile o quello Portoghese (sic!) pur tuttavia emerge, nel “mondo piccolo”, qualche esperienza sanitaria di base o territoriale, ben “stagionata”, che potrebbe ottenere miglior fortuna a fronte di ipotesi di tendenza ma alquanto salottiera.
Purtroppo non sono gli appelli o le petizioni che modificheranno la brutta china scivolosa nella quale si trova il nostro sistema sanitario (in particolare quello territoriale). Le cause sono note. La presenza, tra i firmatari delle istanze, di persone che meritano un indiscutibile rispetto non nasconde il fatto che vi siano responsabilità storiche perfettamente identificabili.
La criticità relativa al finanziamento è certamente un argomento serio. La globalizzazione e l’egemonia finanziaria alimenta un consumismo che tende all’infinito. Di conseguenza i fondi non saranno mai sufficienti se oltre all’aspetto economico/finanziario non si associa una solida riforma compossibile previo ampio dibattito pubblico con i professionisti e i cittadini o almeno parlamentare. In questi anni la Conferenza Stato Regioni ha esercitato un ruolo decisionale quasi egemonico con la propria Commissione Sanità continuamente presieduta dai rappresentanti di una o due regioni: la sola questione danarosa quindi potrebbe apparire come un ineccepibile alibi piagnucoloso al fine di oscurare i pregressi processi decisionali controriformisti o esigenze di apparato.
Il mondo della sanità si sta orientando in senso opposto alla 833? Il nostro paese non ha una sovranità tale da potersi opporre, a livello sanitario, al consumismo neo-liberale? Lo si dica chiaramente e forse la società civile, stanca di gestioni consociativistiche e deludenti, troverà una soluzione già sperimentata nella sua storia di associazionismo e di auto-aiuto.
Se invece si considera la sanità una delle più importanti opere pubbliche della nostra nazione occorre trovare il modo di non abbandonare questo bene comune ricorrendo, con responsabilità bipartisan, a modelli come il Welfare di Comunità (vero!) elaborato da Stefano Zamagni e al medico autonomo/autore di Ivan Cavicchi.
La riforma 833/1978 è stata crivellata, dalla sua promulgazione ad oggi, da una infinità di controriforme (nazionali e locali) che l’hanno sostanzialmente annullata.
Attualmente l’asfissiante chiacchiericcio sulle Case della Comunità, Ospedali di Comunità, Distretti, dipendenza dei mmg ecc. sembra voler nascondere la mancanza di una cultura sanitaria pubblica.
La comunità, secondo Aristotele, non è definita da un luogo, da un ambito geografico o da una struttura (CdC) ma dal fatto che un gruppo di cittadini siano in grado di garantire una buona vita alle persone di un territorio affinché possano sviluppare una esistenza indipendente e autonoma pur all’interno di una reciproca solidarietà così che concretizzi una vita degna di essere vissuta. La comunità (contenuta nei numeri) è prioritaria rispetto ad un individuo anche se, proprio grazie alla solidarietà degli altri, lo stesso soggetto singolo può sviluppare la propria individualità.
Infatti la persona non solo è un vivente politico-sociale-comunitario ma è anche l’unico essere che ha il logos cioè il linguaggio-ragionamento “prudente/calcolante” ed è in grado, con la ragione e il dialogo, di stabilire, ad esempio, forme di assistenza misurata (es.: da parte dei mmg) e proporzionata per quella comunità affinché non prevalgono logiche individualistiche dannose (es.: un consumismo amministrativo).
Ciò che dà valore “unico” ad una comunità raccolta intorno ai propri mmg di riferimento sta nel fatto che, in questo modo, è possibile soddisfare i bisogni dei suoi componenti seguendo il criterio di “finitezza” a sua volta sostenuto dal tessuto solidale. Da questo punto di vista potrebbe apparire irragionevole e solo economicistico mettere in campo un costoso meccanismo di appropriatezza prescrittiva. Chi se non il mmg può aiutare le persone, che lo hanno scelto fiduciariamente, ad inserire nel loro bagaglio culturale il concetto del limite, della misura, financo che la vita ha un termine? Non saranno certo le istituzioni o le alte dirigenze o le amministrazioni o i protocolli o gli algoritmi a poter comunicare empaticamente tali riflessioni.
Contrariamente alcuni recenti movimenti filosofici, immersi in una realtà neoliberista, tendono a promuovere una vita illimitata e senza termine (trans umanesimo e post umanesimo). Così la società consumistica opterà per un soddisfacimento dei desideri individuali con quella smania di illimitatezza che corrisponde alla massima distanza dalla ragione. Questa cultura che penetra anche le istituzioni e i gruppi culturali satelliti porta alla disgregazione del tessuto comunitario e della sua tenuta etica. La mancanza di limite riproduce sempre lo stesso ciclo di produzione consumistica tanto da arrivare ad utilizzare i cittadini (volontari, professionisti, assistiti) come semplici strumenti operativi.
La comunità giusta è quella che non è troppo grande né troppo piccola, non ha troppi abitanti né troppo pochi, non conta persone troppo ricche né troppo povere. E’ una popolazione che necessita quindi di un auto-controllo autonomo interno grazie ad individualità specifiche solidali (es.: mmg fiduciari) e all’alternanza tra il governare e l’essere governati perché, questo, è il vero abitare la democrazia.
Tommaso (che avrebbe volentieri voluto battezzare Aristotele), sostiene che, nel caso vi fosse pericolo per la comunità e il bene comune, sarebbe lecita la “perturbatio” cioè la ribellione in quanto significherebbe disubbidire ad una tirannide e obbedire a Dio.
Bruno Agnetti
Centro Studi Programmazione Sanitaria (CSPS) di Comunità Solidale Parma ODV
08 aprile 2024
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Un attimo, per riprendere fiato dal soffocante pensiero unico
Gentile Direttore,
le note controriforme e le ingarbugliate innovazioni, pur consacrate dal soffocante pensiero unico, mostrano già l’inconsistenza a causa di fondamenta costruite sulla sabbia. Alcuni ricorderanno i contenuti del art. 1 della legge Balduzzi (2012) dove si declinavano le funzioni delle AFT (Aggregazioni Funzionali Territoriali). Le regioni hanno poi generato caos inventando numerosi acronimi per marcare il loro territorio. Il DM 77 è una legge che sembra fatta su misura per creare confusione. Fa eco il recente ACN.
Il PNRR sollecita espressamente l’attuazione dell’assistenza di prossimità ma considera le CdC e gli Ospedali di Comunità (tutt’altro che di Comunità) come esempi e non come modelli unici. Ex cathedra si ammette infatti che le CdC (prevalentemente “spoke”) non siano adeguate ai reali bisogni delle popolazioni e dei professionisti.
Nonostante l’inesorabile penetrazione del privato nel SSN, le alte dirigenze (Regionali e Aziendali) si sono cullate nella certezza della loro perenne esistenza e del fatto che alcuni servizi non sarebbero mai stati appetibili al privato-privato e il ruolo di dominio istituzionale, in quei settori, non sarebbe mai stato conteso. In pochi mesi si sono moltiplicati PS, Sert, pronti interventi di base h/24, rianimazioni… il tutto rigorosamente privato-privato!
Alcuni commentatori hanno osservato che le gerarchie di potere (“sappiamo cosa è meglio” per voi) potrebbero essere le prime a non volere mai nessuna vera innovazione proprio perché sarebbe più conveniente, per loro, un orientamento sulla malattia piuttosto che sul cittadino. Così appaiono come “grande finzione” anche le CdC conformi alle contraddizioni contro-riformistiche e ai consociativismi. Questi ultimi probabilmente non più attribuibili a convergenze storiche (es.: istituzioni e sindacato) ma a solide collaborazioni tra istituzioni e/o gruppi che condividono interessi particolari e comuni.
L’urgenza riformatrice desiderata da cittadini e professionisti è contrastata dalla smisurata quantità di tempo gestionale a disposizione delle alte amministrazioni dove il neoliberalismo ed il consumismo sembrano essere proprio di casa.
Il potere di Regioni e Aziende è talmente possente che non c’è spazio per elaborazioni che non siano più che allineate in quanto ciò che una regione delibera, in ambito sanitario, diventa legge. Le Aziende Locali, poi, applicano il mandato avendo come principali o unici referenti politici e datori di lavoro gli Assessorati Regionali.
Si ricorderà l’enorme pressione comunicativa messa in atto nel periodo in cui gli apparati avevano deciso di chiudere i piccoli ospedali territoriali spesso presidi “gioiello” e vere scuole di integrazione con il territorio. Anche allora (USL) i referenti erano politici ma facilmente raggiungibili ed individuabili. I piccoli ospedali sono stati chiusi con la promessa di istituire presidi territoriali “equivalenti”. Ciò poteva sembrare, in un primo momento, accettabile per professionisti e cittadini ma poi è stata varata la controriforma sulle CdS del 2016.
Il Covid ha ricordato tutto ciò ma, al momento, il sistema è immodificabile a causa della legislazione vigente.
Una riflessione a parte merita la questione “comunità”. Non vi sono dubbi che il senso di appartenenza e i legami sociali siano stati fortemente provati dalla globalizzazione finanziaria. Dal punto di vista sociologico-sanitario, per la prima volta, si verifica un elemento inedito. Si può osservare la compresenza, in ambito occupazionale, di nette stratificazioni generazionali che manifestano dirompenti differenze culturali.
Nello specifico i giovani colleghi che intraprendono, oggi, la professione di mmg si trovano a confrontarsi in modo nuovo con istituzioni a struttura medioevale e con le comunità di riferimento (assistiti coetanei ma anche “silenti” o “boomer” che li hanno scelti fiduciariamente). Cosa ricercheranno nei giovani medici questi cittadini? Come considereranno i mmg il loro inquadramento professionale-giuridico, la loro autonomia, l’essere all’interno di una sempre più diffusa complessità, l’aumento delle tensioni sociali e le smisurate ansie individuali di molti assistiti?
Forse la generazione precedente dei medici di famiglia non si è preoccupata di organizzare una adeguata trasmissibilità esperienziale ai giovani colleghi così, è possibile, che gli stessi nuovi mmg non si siano particolarmente interessati a questo aspetto. Non di meno la professione sarà coinvolta nel far fronte ad alcuni strati della popolazione che manifesterà sindromi da sradicamento culturale e che frequenteranno l’ambulatorio del medico di base.
Considerato questo stato di cose i giovani colleghi potrebbero rappresentare un valore aggiunto in grado di comporre una sintesi tra professione e società. Dal punto di vista antropologico si può sostenere che i giovani professionisti abbiano un “cervello” nuovo, una professionalità e una intellettualità immersa nella marea tecnologica in grado di far fronte alle criticità sanitarie burocratiche-amministrative e di affermare una autonomia professionale coerente con il paradigma della complessità.
Questa potrebbe essere la vera “casa” abitata da giovani dottoresse (maggioranza in ambito delle cure primarie) e dottori abili nel costruire i principi per una riforma strutturale nazionale che necessita, per forza di cose, di una partecipazione bipartisan se si desidera finalmente superare tutte le assunzioni controriformiste. Tra queste vanno ricomprese anche gli improbabili modelli esteri o esotici molto pubblicizzati (come nella più classica delle promozioni neo-liberali) dimenticando, colpevolmente, la presenza, nel nostro paese, di questa nuova generazione di medici, inimmaginabile fino a poco tempo fa.
Non a caso l’ultima fatica del Prof. Ivan Cavicchi (“Medici vs Cittadini”, Castelvecchi, 2024) affronta il tema della ridefinizione giuridica del medico ma immette anche, all’interno del dibattito e della riflessione, la questione della complessità come nuovo “archè” che non può più essere tralasciato (Byung-Chul Han, “La crisi della narrazione”, Einaudi, 2024) se si desidera rappresentare la “questione medica” e una cultura assistenziale coerente con l’attualità post-moderna.
Bruno Agnetti
Centro Studi Programmazione Sanitaria (CSPS) di Comunità Solidale Parma ODV
25 marzo 2024
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L’isola che non c’è
L’isola che non c’è
21 OTT -
Gentile Direttore,
l’encomiabile contributo del collega Luigi Di Candido, pur non analizzando i temi generali che possono essere alla base di una riforma radicale della sanità soprattutto territoriale pone comunque una consistente pietra angolare alle fondamenta per ristrutturare l’intero SSN.
Nel passato pare che qualche AUSL, nella ridondante stagione dell’aziendalizzazione generata dalla nota modifica del Titolo V, abbia addirittura tentato di iscriversi all’Unione Industriali del territorio di appartenenza ma questa avventura sembra non essere andata a buon fine. In effetti, osservando i numeri e anche la logistica di quelle organizzazioni che oggigiorno, in modo barocco, continuano ad essere definite aziende sanitarie hanno migliaia di dipendenti e sono tra i pochissimi enti che hanno il vantaggio di trovarsi all’interno dell’abitato delle nostre città.
Una datata ricerca sul clima organizzativo ed il benessere aziendale (“I medici bocciano i dirigenti”, il Sole 24OreSanità, 1-7 aprile 2008) conferma, in tempi non sospetti, le condizioni snocciolate dalle “ipotesi” percentuali del collega Di Candido che conclude il suo intervento chiedendosi se queste istituzioni sono o non sono aziende. La domanda è palesemente retorica e la risposta è solo una. Tuttavia le normative attuali, la riforma del titolo V e la creazione di numerosi Servizi Sanitari Regionali non permettono nessun cambiamento ma solo toppe che tradizionalmente sono sempre peggio del buco.
Il collega cita il management, l’aziendalismo, il linguaggio economicistico e la governance termini tanto cari ai proseliti che difendono questa cultura come depositaria del vero ( lean, six sigma, total quality System, Value based procurement, H.T.A.) a cui andrebbero aggiunti: policy maker, medicina on demand (che volgarità!) che deve assolutamente e completamente essere sostituita con la medicina di iniziativa, AFT (che si rifanno alla datata e ancora vigente Legge Balduzzi), big data, back office, CRM (Customer Relation Management), patient joumey, CdC ( Case della Comunità o della Salute) e OSCO ( ospedali di comunità in contraddizione con la loro stessa definizione e che dovrebbero essere indicati come Ospedali di Distretto secondo quanto emerge dal DM77), service design, consultant, digital first, COT, UCA…
Inevitabilmente sarà necessario imparare, come già fatto nel passato, questo “relativamente nuovo” linguaggio (in attesa che qualcosa d’altro, ma di radicale, possa accadere) proprio perché le così dette “nuove” normative ( ACN, DM77, Metaprogetto, Circolare della Conferenza Stato-Regioni…) promettono una “stagione interessante e generativa per il top e middle management delle regioni e delle aziende” che però, come dimostrato dall’articolo del collega… non esistono. Nasce spontaneo il quesito di cosa “prometteranno” le innovazioni lessicali pesantemente controriformiste ai cittadini e ai professionisti. Non conoscere la terminologia burocratico “trendy” potrebbe creare frustrazione ed isolamento nei sistemi di decisione apparentemente molto complessi a causa di un continuo “rifornimento” per i piani alti di parole magiche inedite. Risalta sotto tutti i suoi aspetti una contraddizione paradossale non facilmente risolvibile: convivere ed operare (da anni ed anni) con enti “inesistenti” significa, come ripete da tanto tempo un nostro notissimo “autore”, generare contraddizioni su contraddizioni in sanità fenomeno che inevitabilmente crea una regressione professionale tale che probabilmente fa toccare ormai il suo temuto punto di non ritorno…
Una possibile “quasi riforma radicale” per le PHC (Primary Health Care) cioè per le cure territoriali è stata presentata al convegno/evento “Sopravvivere per vivere: cosa abbiamo imparato dall’esperienza Covid. Prospettive future” celebrato il 24 settembre 2022 a Verona e di cui ha parlato anche QS il 3 ottobre scorso.
La “quasi riforma radicale” descritta tiene conto di tre elementi fondamentali pur ostacolata delle normative vigenti e legislativamente “cogenti” (Titolo V, Aziendalizzazione, SSR, Conferenza Stato-regioni, sanità amministrata …):
- una posizione di discontinuità alternativa per le Alte Dirigenze Ausl e gli Assessorati Regionali con funzioni di garanzia o di authority dei valori fondamentali del SSN;
- il ritorno ad un SSN unico ed unitario con una posizione di convenzionamento in libera professione e libera scelta per i mmg;
- una completa autonomia periferica territoriale anche gestionale ed economica dell’insieme degli attori socio-sanitari che operano sul territorio ( medici, infermieri, specialisti, servizi di riabilitazione psico-neuro-motori innovativi, servizi territoriali, servizi sociali, servizi educativi, servizi socio sanitari, componenti del terzo settore, imprese generatrici..), dei percorsi collegati anche con i servizi ospedalieri, dell’intero processo decisionale e del governo clinico agevolati da una guida “di servizio” denominata provvisoriamente “collegio del territorio” che comprende eventualmente un ricollocamento di risorse umane di AUSL e Assessorati nelle varie aggregazioni territoriali di AFT o di NCP.
Bruno Agnetti
CSPS (Centro Studi Programmazione Sanitaria)
FISMU (Federazione Italiana Sindacale Medici Uniti), Regione Emilia Romagna
Per la sanità territoriale è venuto il momento del “redde rationem”
Gentile Direttore,
da anni come centro studi abbiamo scelto di seguire una via difficile ed impervia ma tuttavia esaltante proprio a causa della sua difficoltà. Abbiamo tentato di mettere insieme ( per comporre un concreto progetto riformatore delle cure primarie) le elaborazioni concettuali, epistemologiche ed ontologiche del nostro storico punto di riferimento Prof. Ivan Cavicchi con le visioni organizzative territoriali e di welfare comunitario del Prof. Stefano Zamagni. Per noi due giganti che hanno da sempre guidato la nostra pratica professionale.
Come capita spesso, le sollecitazioni del prof. Ivan sono, irresistibili e ci coinvolgono ogni volta profondamente. Desideriamo approfondire le sue tematiche ma abbiamo anche il desiderio di partecipare e condividere le sue argomentazioni apportando qualche nostra posizione. Il suo ultimo intervento spiega bene come si stia profilando un completo fallimento della medicina generale a causa di un consociativismo che purtroppo pare aver cancellato ogni credibilità alle Aziende e ai sindacati coinvolti in queste pratiche di sottogoverno.
Che dire delle analisi coloritissime e di piacevolissima lettura del Prof. se non che siano inevitabilmente e tragicamente condivisibili al 100%? Anche il nostro gruppo di studio ha spesso espresso concetti e considerazioni sulla medicina generale e alla sua malattia degenerativa interna sovrapponibili a quelle dell’articolo sul “redde rationem” che ricorda, con dovizia di particolari, le lunghe manovre di controriforme, l’assenza di un coming out di ammissione del completo fallimento delle aziende sanitarie, degli assessorati, di alcune decisioni condizionate dalla maggioranza rappresentativa. L’incapacità di ascolto della società civile, lo svilimento dei bisogni espressi ed inespressi degli assistiti e dei professionisti sono riportati addirittura con nomi e cognomi fino a ricordare l’esilarante episodio dove il Prof. Ivan riceve il consiglio (non richiesto) di utilizzare un po’ di Prozac! Sarebbe interessante allagare questo elenco anche i nomi dei responsabili sanitari regionali e aziendali.
Nonostante i pomposi DM non si vedrà un ben nulla a potenziamento del territorio e chi ci rimetterà saranno sempre i soliti professionisti di trincea e i cittadini. Impressionante, tanto da diventare incredibile nella sua realizzazione (l’avanzo del PNRR sarà condizionato dalla guerra in atto), sono le 1350 Case della Comunità previste che entrano, concettualmente, immediatamente in contraddizione con i 400 Ospedali di Comunità programmati. Questi ultimi, come minimo, dovrebbero modificare subito la loro definizione altrimenti emergerebbe un ossimoro clamoroso ed emblematico (non saranno mai di comunità ma al massimo di territorio dovendo ricoprire, secondo i numeri annunciati, aree molto più ampie di quelle che vengono comunemente indicata come “territori di comunità” ) e quindi, come dice Cavicchi, da questo punto di vista la prossimità si palesa come una bella fandonia. Gli assistiti di serie A e di serie B sono sempre esistiti in questi anni quando le strutture, chiamate fino a 6 mesi fa Case della Salute, hanno creato, negli anni, differenziazioni o discriminazioni coinvolgendo nella sciagura sia i pazienti che i professionisti.
Già da qualche articolo anche il Professore pare piegarsi all’inevitabile avanzare delle assicurazioni complementari o integrative e al rovinoso welfare aziendale… Si assiste ad una narrazione già ascoltata nel passato dove per normativa la Guardia Medica (presidio) è diventata Continuità Assistenziale e l’auto medica e divenuta infermieristica (con grande rispetto per i colleghi infermieri) ecc. Piccoli passi infinitesimali ma ben progettati perché la burocrazia ha tutto il tempo che le serve per una rivalsa che va servita fredda. Inoltre, mandarini, oligarchi e autocrati riescono con estrema facilità a far credere alla stragrande maggioranza degli assistiti che gli asini volino e che il miglior medico di base possibile sia quello che opera come specialista.
Quando un assessorato regionale o una amministrazione sanitaria Ausl non sono convinte di dover affrontare certi problemi in modo puntuale (cioè con una radicale riforma dell’assistenza territoriale e delle cure primarie in modo trasparente ed assolutamente equo) non saranno certo le parole o gli scritti a far cambiare queste convinzioni radicate e sovraordinate.
La cronica mancanza di avvicendamenti o alternanze nel processo politico-decisionale sanitario, considerato l’enorme potere economico e sociale affidato alle regioni, può portare a quello che James Reason, in campo clinico, ha definito la “teoria del formaggio svizzero”. Reason, con la sua ipotesi, ha tentato di rappresentare come nei sistemi complessi (e non solo in quelli sanitari) la consuetudine (es.: la uggiosa ed insopportabile questione della governance che non vuol dire altro che comandare) possa causare situazioni tali da determinare errori successivi o seriali che possono diventare alla fine anche catastrofici (“tranvata”). Ogni pratica è prigioniera della sociologia o del “contesto”. Non avevano tenuto conto del contesto i dinosauri e sono scomparsi. Non è successo invece ai piccoli roditori che scavavano le loro tane nel terreno più profondo.
Sarà solo il tempo che riuscirà a dare ragione e senso a questa parte politica della cura.
Il modernismo regressivo, a volte, si dimentica di questo aspetto fino a ipotizzare che il cittadino ideale debba tendere alla massima autonomia, libertà, tendendo cosi a tralasciare la collettività o alla vita in comunità.
Infine, con tutto il massimo rispetto e devozione vorremmo riportare l’invocazione del Sommo Pontefice Papa Francesco riportata nel titolo dell’articolo di QdS (6 giugno 2022) sulla Sanità Pubblica. “E’ una ricchezza: non perderla, per favore, non perderla”. “Anche in campo sanitario è frequente la tentazione di far prevalere vantaggi economici e politici di qualche gruppo a discapito della maggior parte della popolazione”. “Tagliare le risorse per la sanità è un oltraggio per l’umanità”
Giuseppe Campo, Alessandro Chiari, Alessandro D’Ercole, Bruno Bersellini, Bruno Agnetti
Centro Studi Programmazione Sanitaria (CSPS) FISMU, Emilia Romagna
Nuovo Acn per la Medicina Territoriale: Smi Propone il “Patto-Contratto”
Nuovo Acn per la medicina territoriale: Smi propone il “Patto-Contratto”
Dopo un anno di lavoro la Commissione Assistenza Primaria del Sindacato dei Medici Italiani (Smi) ha presentato il documento sulla convenzione denominato dal sindacato: “Patto-Contratto tra i medici professionisti della sanità territoriale e il servizio sanitario nazionale” in cui si propone un radicale cambiamento anche rispetto a un recente passato.
Articolo di Bruno Agnetti
Pubblicato su M.D. Medicinae Doctor - Anno XX numero 1 - 10 febbraio 2013
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