case della salute

Per una filosofia delle cure primarie

Gentile Direttore,
in un articolo del 3 novembre il prof. Ivan Cavicchi ha sostenuto che fosse, in primis, necessario dire almeno qualche verità sulla situazione attuale del SSN per pensare ad una efficace riforma sanitaria. Questa ricerca della verità può essere facilitata in periferia dove i professionisti e le comunità possiedono una abilità originale nel leggere la professione e l’evoluzione sociale. All’origine della cultura occidentale sono state proprio le colonie ioniche o quelle della Magna Grecia che hanno contribuito alla sua diffusione più di quello che aveva fatto la madre patria (Atene).

Il tema dell’integrazione può essere un esempio emblematico di come la periferia riesca a superare di molto le elaborazioni istituzionali burocratiche. Molti mmg hanno creato spontaneamente reti di relazioni che permettono di operare in modo integrato. Il servizio territoriale del SerDP da sempre realizza un’integrazione quotidiana, strutturata tra medici, psicologi, servizi sociali, attività educative, infermieri, iniziative sperimentali ed innovative con volontari ed assistiti. È un modello ben rodato, interno al SSN, che avrebbe potuto essere utilizzato come schema formativo ed operativo per altri servizi territoriali e per la medicina di base indipendentemente dalla presenza o meno di strutture in conto capitale (Case della Comunità).

Malgrado questo le istituzioni (soprattutto regionali e aziendali) fanno a gara per ricercare modelli “esotici” di riordino del sistema di integrazione territoriale. In questi ultimi anni è cresciuto sempre di più, tanto da diventare “di tendenza”, il modello brasiliano (sic!). Qualche tempo fa erano “di gran moda” le Case della Salute spagnole o la pianificazione delle Cure Primarie portoghesi: a guardar bene sistemi completamente diversi dall’attuale SSN Italiano (es.: i mmg in quei paesi sono dipendenti).

Desta veramente meraviglia come i decisori possano essere così masochisti e incapaci di ascoltare o di vedere ciò che di prezioso c’è nel nostro territorio. Questa interminabile autoreferenzialità delle oligarchie porta il tutto al macero.

L’elenco delle contraddizioni inattendibili contenute nei documenti sanitari ufficiali e nelle elaborazioni delle agenzie culturali sono numerose. Si possono ricordare solo alcuni temi.

Il PNRR pur essendo uno “strumento finanziario” viene considerato dai più una riforma.

Il DM77 che palesemente “non spicca per innovazione” trascinerà comunque con sé per anni le incoerenze strutturali e regressive negli ACN, negli Accordi Regionale e in quelli Aziendali/locali.

Il concetto di “governance” è diffusamente percepito dagli operatori come un termine completamente sovrapponibile ad una rigida forma di governo di controllo assoluto e autoritario pur ammantato da affabilità.

“L’assistenza centrata sul paziente” è e sarà inesistente come dimostrato delle infinite, irrazionali e antiscientifiche liste d’attesa.

Finta è la valorizzazione delle comunità, del volontariato, del terzo settore ma anche dei professionisti di periferia che vengono coinvolti nel processo decisionale ex-post, in senso consultivo e solo se funzionali a quanto già deciso nei palazzi.

I Distretti raffigurati come “mera articolazione organizzativa delle Aziende” hanno dimostrato negli anni di essere fortemente regressivi e di non saper leggere i bisogni delle popolazioni, tuttavia continuano ad essere osannati ed incensati come elementi di innovazione.

I commissariamenti che perdurano da anni anche in realtà considerate eccellenti (luogo comune?) restano incomprensibili perché, indirettamente, avvallano il pensiero che in quei territori non vi siano individui in grado di svolgere le funzioni istituzionali stabilite dalle normative.

La questione della dipendenza o della libera professione convenzionata dei mmg non è “futile” ma sostanziale in quanto “l’orizzonte degli eventi” si modifica radicalmente. Anche se solo si trattasse del “diritto di critica” del dipendente che può essere esercitato solo all’interno di precisi limiti (come da sentenza della Cassazione 17784/2022) e, se non rispettati, un eventuale esternalizzazione avversa può essere soggetta alle conseguenze di una Commissione Disciplinare Aziendale.

Le Case della Comunità (in conto capitale) sono in affanno per la difficolta di armonizzare le “mura” con un conto corrente (cioè la funzionalità quotidiana strutturata). Forse perché contradditorie, inadeguate ai bisogni dei territori, generatrici di discriminazioni professionali e assistenziali, ideate up-down prima ancora di sapere cosa e chi contenere. Il sistema è in difficolta e pare non poter essere equanime nell’offrire, a tutti i mmg che dovessero fare richiesta, una CdC. Gli edifici detti edifici “spoke” sono palesemente inadatti tanto che non possono nemmeno essere considerati equivalenti ad una semplice Medicina di Gruppo ben organizzata. Se si analizzassero adeguatamente i bisogni dei territori ci si accorgerebbe che le CdC, sia “hub” che “spoke”, non potranno mai risolvere i problemi anche se il martellamento pubblicitario esercitato dagli addetti ai lavori può generare un bisogno (consumistico) nei cittadini senza che questi sappiano di cosa effettivamente si tratta.

Per non parlare, infine, del sistema di formazione continua ECM che, se confrontato con le infinite possibilità di aggiornamento in tempo reale per professionisti interessati alla propria “opera”, appare, quanto meno, arcaico.

Quale “futura riforma” potrà mai essere elaborata oggi dagli stessi soggetti che dominano la sanità da anni e che l’hanno portata alle corde? Non è possibile fare bene ed essere di qualità se ci si è disinteressati della dimensione (spesso inespressa) che caratterizza il contesto e le relazioni tra coloro che vivono la quotidianità territoriale delle cure primarie.

Le numerose incoerenze emergenti richiederebbero la mobilitazione delle forze culturali sensibili al tema della salute, dei professionisti e dei cittadini al fine di ricercare principi di Verità/Giustizia/Etica coerenti, razionali, compossibili. In questo senso una filosofia dell’organizzazione territoriale delle cure primarie può proporsi di utilizzare il sapere (nella sua essenza) a vantaggio della vita delle persone (Platone) e dei professionisti a fronte di una medicina amministrata funzionale solo per agli apparati. Il filosofo infatti assume la medicina come modello di una metodologia per raggiungere il sapere e per uscire dalle contraddizioni derivanti da una conoscenza esclusivamente teorica (es.: burocratico/amministrativo/di controllo) ma priva di aperture sull’esperienza.

Bruno Agnetti
Centro Studi Programmazione Sanitaria (CSPS) di Comunità Solidale Parma ODV

14 novembre 2023
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Purché nulla cambi?

Gentile Direttore,
alcuni interventi recenti, tra i tanti che potrebbero essere citati, aiutano e incoraggiano a tentare di ri-cercare, almeno culturalmente, il bandolo della matassa. L. Fassari (La sanità sospesa tra le poche risorse e la paura di cambiare, QS 5 ottobre 2023) ricorda come non sia più possibile la sola manutenzione della macchina… ma occorrono idee e coraggio. Il tenace Prof. I. Cavicchi avvisa i naviganti che di propaganda si può affogare se non ci sono i salvagenti (Di troppa propaganda il Ssn muore, QS 10 ottobre 2023; Bene auspicare una nuova riforma della sanità ma ora servono le proposte, QS 13 ottobre2023).

In merito alla medicina generale molto è già stato scritto su questioni inerenti la “Quarta riforma”, il medico di medicina generale “Autore”, il welfare di comunità. Di attualità è il tema delle Case della Comunità che probabilmente delineano uno dei maggiori abbagli controriformisti: infatti la narrazione unilaterale cela il fatto che le CdC spoke rappresentino, concretamente, un pesante declassamento della medicina di base a causa delle verosimili discriminazioni, strutturate normativamente, assistenziale e professionali.

La potestà dei tradizionali livelli decisionali della piramidale galassia sanitaria ha già deliberato, da tempo, ogni cosa e concede solo qualche residua briciola all’esausto ed impotente dibattito pubblico. Il potere, quando è un potere, si mostra affabile ma inesorabile a difesa del vantaggioso, per pochi, status quo.

A latere delle argomentazioni citate potrebbero meritare una riflessione dialogica alcuni temi apparsi sulle colonne di QS. Considerando però ciò che è capitato (crisi economica, approvvigionamento energetico, transizione ecologica, covid, inflazione, guerra) e sta capitando ( guerra medio-orientale ed altri focolai di guerre “a pezzi” nel mondo) ogni commento casalingo potrebbe sembrare inadatto quando l’equilibrio geo-politico ed economico muta sotto i nostri occhi e trascinerà fatalmente, con se, anche i sistemi sanitari nazionali.

Si è ragionato sul tema dell’ECM. Il programma di Formazione Continua in Medicina (ECM) inizia nel 2002 in conformità con il DL 502/1992 e 229/1999 la cui gestione viene affidata, nel 2007, all’Agenzia Nazionale per i Servizi Sanitari Regionali (Agenas). In venti anni di acqua ne è passata sotto i ponti. Le innovazioni tecnologiche e le occasioni per poter usufruire di aggiornamenti professionali in tempo reale sono oggi incredibili. Congressi o eventi in presenza sembrano diventati obsoleti. Eppure l’ECM per i mmg, nel tempo, è cambiata poco o nulla. Forse sono aumentati solo gli eventi “obbligatori” di Ausl e Regioni. Ciò che invece dovrebbero essere valorizzate sono le strategie di apprendimento contestuali e auto organizzate a piccoli gruppi (es.: mmg dei NCP o mmg dei team assistenziali) dove è possibile la circolazione dei saperi. Nell’apprendimento continuo vanno inseriti anche l’organizzazione degli incontri stessi, la partecipazione ai team assistenziali, il coinvolgimento -anche amicale- di esperti, le docenze, le presentazioni, l’elaborazione di articoli, le pubblicazioni, la partecipazione a programmi o progetti, la co-operazione attiva alla vita sociale del proprio territorio… Sarà necessario ripensare un nuovo equilibrio più liberale ed esentato da obblighi punitivi, per altro evanescenti, per gli ECM?

Particolarmente analizzata è stata la questione della sfrenata raccolta “dati” in funzione di una auspicata “qualità”. A tutt’oggi, a livello territoriale, non pare vi sia stato il miglioramento assistenziale atteso. Anzi le criticità incrementano e non sembrano apparire all’orizzonte fausti presagi. È possibile che l’ubriacatura procurata dallo stoccaggio nei “silos” di informazioni in fermentazione produca solo uno stordimento afinalistico. I fatti, relativi agli esiti sull’organizzazione territoriale, dimostrano come persista uno scollamento con la realtà. Il riferimento fideistico ai “big data” comporta, quasi in modo direttamente proporzionale, un incremento di sfiducia nei professionisti mmg (vedi sistemi di priorità continuamente rivisti; le variazioni dei nomenclatori clinici; l’infinito riordino del sistema emergenza-urgenza e il fiorire di splendidi nuovi acronimi tanto cari ai cittadini; il richiamo incessante all’obiettivo di ridurre gli accessi impropri al PS e i ricoveri arbitrariamente attribuiti alla mission del mmg). L’innegabile vantaggio dell’informatizzazione in sanità territoriale si volatilizza se questa è impiegata, essenzialmente, come mezzo di controllo burocratico e non come strumento a sostegno del mmg e dell’assistenza. La creazione di un regime disciplinare orientato a raccogliere esclusivamente informazioni trasforma i professionisti (inconsapevoli) in banali strumenti di lavoro. Alla frenesia comunicativa/informativa non interessa il pensare, il confronto, la relazione.

Sta di fatto che senza i legami sociali non si creano le abilità per dedicarsi agli altri. Senza relazioni libere e fiduciarie si ottiene il paradosso di una “comunicazione senza comunità” enfatizzata proprio dalla narrazione sulle Case della Comunità. Se mancano le relazioni non c’è nemmeno l’attualità perché manca la socializzazione (i dati si possono aggregare fin che si vuole ma appartengono sempre alla sfera singola e non rappresenteranno mai la collettività se non in senso linearmente probabilistico). Tutto ciò facilita l’avvento di regimi gestionali manageriali basati sull’economicismo e con un eticità in grado di dissolvere, anche le persone, in una misera serie di dati ( Byung-Chul Han, Infocrazia, Einaudi 2023).Tuttavia è fortemente diffusa la convinzione che la raccolta dati sia effettivamente vantaggiosa per migliorare i servizi. Le informazioni accumulate, comunque, non sono riuscite ad offrire veri orientamenti sul medio periodo e hanno fallito nell’ambito della coesione sociale e del consenso (zoppica il DM77, zoppicano ancor di più le CdC, addirittura annaspa l’assurdo concetto di spoke …).

Modelli o proposte rivolte ad una soluzione alternativa delle problematiche della medicina generale territoriale (ancora poco appetibile per il sistema privatistico) ed in particolare i progetti elaborati dalla co-operazione volontariato/mmg, (dove si ritiene che la medicina di base sia un “bene comune” per una comunità), vengono disconosciute, ignorate, nascoste, negate dalla fregola che fa correre i portatori dei “loro” interessi ad azzuffarsi per un posto da “capotreno”. Dio non voglia che l’ossessione faraonica di edificare le “proprie” piramidi non sia la causa della fuga dei professionisti che si sentono schiavizzati. Sarà necessario ri-pensare, per le cure primarie, un nuovo equilibrio adeguato al contesto e non agli apparati zoppicanti/anneganti?

Bruno Agnetti
Centro Studi Programmazione Sanitaria ( CSPS) di Comunità Solidale Parma ODV

16 ottobre 2023
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Medicina Territoriale

Innegabili sovrapposizioni tra casa della Comunità e Casa della Salute

Gentile Direttore,
la meccanica quantistica, si sa, è una fra le teorie più controintuitive. E’ strano che una particella possa comparire in due posti contemporaneamente anche a distanze siderali oppure che un fenomeno come l’entropia possa contraddire il tempo potendosi sviluppare in due direzioni opposte: in avanti rispettando il fenomeno dell’incremento del disordine (invecchiamento) ma anche, paradossalmente per il tempo che scorre, indietro o quasi.

Si sostiene che tutto questo dipenda dalla doppia natura delle particelle sub atomiche che sono nello stesso tempo porzioni di materia ma anche onde di energia. Tutto ciò, assicurano i fisici, è stato ampiamente dimostrato e potrebbe valere anche per “corpi” di dimensioni maggiori (batteri, esseri umani, corpi celesti) pur comportando, in questi casi, una documentazione della “sovrapposizione” terribilmente complicata.

Restando con i piedi ben piantati nella meccanica fisica classica non si può dire, come più volte sostenuto ex cathedra, in pubblico, dai cosiddetti esperti del settore che le Case della Comunità siano un netto miglioramento del modello Casa della Salute come è intuitivamente evidente osservando la schematizzazione delle due tabelle sinottiche a fondo pagina (CdS “Grande” vs CdC “hub”).

Il PNRR ha consentito il proliferare di narrazioni normativamente corrette ma soffocanti in favore del fatto che l’innovazione sia data soprattutto dalle Case della Comunità “spoke” (programmate in grande numero) che si collegheranno/integreranno con le Case della Comunità “hub” ( progettate in numero significativamente scarso) così da riproporre un infinito frattale “piramidale” che non ha nulla a che fare con i bisogni delle comunità/quartieri/zone.

Evidentissimo invece il vantaggio per il Distretto inteso non come area geografica ma come apparato amministrativo per altro invocato da molti come modello “salvifico” probabilmente non avendo mai sperimentato i vincoli egemonici possibilmente agiti. Come già approfondito a suo tempo è una questione di potere. Di norma l’obiettivo del potere non può esimersi dall’incremento del potere stesso fino all’esaurimento delle risorse disponibili.

Si replica inoltre la tragedia (a grande richiesta) già sperimentata nella stagione delle Case della Salute. Il racconto, tutto concentrato sulle Case della Comunità “spoke”, nasconde nelle pieghe dell’affabulazione la sventura della differenziazione (alcuni la definiscono discriminazione) professionale ed assistenziale. Infatti non è equivalente o sovrapponibile essere un professionista o un paziente affiliato ad una CdC spoke o assegnato ad una CdC hub in merito a opportunità professionali, servizi o assistenza offerti. Sorge inoltre un dilemma: chi ha deciso dove collocare una CdC hub o spoke? I professionisti? I cittadini assistiti/le comunità? Non sembra proprio ma “Così va il mondo” (Noam Chomsky, Piemme 2017) dove si è portati a ratificare, attraverso alcune ritualità formali, decisioni già prese e comunque separate dalla “policy” del bene collettivo. I cittadini sono intimorirti e smarriti di fronte ai depositari istituzionali “della verità sulla salute” a cui delegano, a causa dello squilibrio di conoscenze e mezzi, senza indugio, le scelte assistenziali/organizzative.

Ciò nonostante, emerge, molto intimo, un singolare pensiero quasi filosofico-stoico: ma è proprio vero che quando c’è la struttura burocratica/amministrativa sanitaria c’è tutto? Si può raggiungere la salute in modo diverso per essere felici? Il benessere può essere conquistato seguendo vie o indicazioni più personalizzate, orientate a stili di vita molto corretti e a sistemi riabilitativi bio-psico-sociali? Per vivere con passione e gusto l’esistenza forse occorre che ci sia qualcosa di grande, un ideale, un bene che renda la vita degna e piena. Paradossalmente per questo ideale spirituale una persona potrebbe essere disposta anche a ridurre la medicalizzazione, sempre più indiscreta, della vita stessa (C. Sanguineti 2021) ed accettare lo scorrere della vita o, se si vuole, la volontà di Dio.

Nel complesso l’impianto normativo sanitario attuale (ACN, DM77, Documenti di Agenzie e di Gruppi portatori di interessi ecc.) appare estremamente fragile, senza fondamenta culturali solide e condivise.

Di tutto ciò è stato appuntato già numerose volte e verosimilmente può non rappresentare nemmeno, dal punto di vista intellettuale, la “questione medica” attualmente più pregnante. Ipotesi e modelli alternativi di organizzazione territoriale sono stati presentati nel tempo da molti commentatori ( il medico “autore”, il vero “welfare di comunità” e l’autonomia territoriale, la dipendenza, rapporto fiduciario e libera scelta, la discrepanza tra la qualità formale, percepita, risultante…).

Mette comunque ora apprensione il destino delle persone che vivono in una comunità che si relaziona, per le questioni di salute, con i propri medici curanti di base. Nondimeno vi è una scarsa consapevolezza, tra gli assistiti, di quello che le normative istituzionali stanno prospettando per il territorio. Il contatto tra cittadini e istituzioni, quando esiste, è sempre estremamente sbilanciato. Le ricchezze esperienziali delle comunità non vengono considerate e si preferisce proseguire con liturgie autoreferenziali addirittura bocciate dalla globalizzazione neoliberalista che tenta di ricostruire un nuovo equilibrio mondiale dopo l’esperienza della pandemia, della fragilità energetica e della guerra. Il coraggio di confrontarsi con i cittadini non si esaurisce in una o due riunioni assembleari annuali. Non implicano nemmeno autorevolezza quelle figure che si autoproclamano rappresentanti dei cittadini o che vengono calate dall’alto dalle onnipotenti aziende sanitarie. Eppure il sapere all’interno dei sistemi complessi come quello sanitario ed assistenziale si crea anche dall’esperienza consapevole degli individui che costruiscono singolarmente più tipi di intelligenze (H. Gardner, Formae mentis, Feltrinelli 1988).

Se la complessità è un dato di fatto è necessaria una pluralità di approcci per comprenderla. Non si può affrontare la complessità con un solo metodo o con un pensiero unico o con modalità lineari rigide e verticistiche/gerarchiche. Le comunità grazie alle “intelligenze multiple” possono costruire con i loro medici di fiducia “la salute dei quartieri” da diversi punti di vista e in modo flessibile. L’autonomia delle comunità nei processi decisionali è sempre più vitale per il servizio pubblico di medicina generale (di base) ed è una netta alternativa alle attuali normative legislative e ai numerosi “stakeholders” molto interessati alle opportunità utilitaristiche che possono emergere dalle normative ufficiali ma che spesso non hanno nulla a che fare con i professionisti e con le comunità territoriali.

Bruno Agnetti
Centro Studi Programmazione Sanitaria ( CSPS) di Comunità Solidale Parma ODV


Cure primarie, c’è una alternativa?

Gentile Direttore,
l’ambito del così detto “territorio” (che considera tutti gli attori che insistono sulle cure primarie compreso il volontariato/terzo settore) da tempo vive nella certezza dell’incertezza.
Pare molto arduo poter percorre una alternativa al pensiero dominante, come fosse un pensiero unico, diffuso a livello manageriale.

Non sono comunque i documenti ufficiali ricordati più volte (ACN, DM77, Metaprogetto…) che sembrano in grado di diradare l’orizzonte. I decisori, ignari del divario istituzioni/società, sono un po’ sempre quelli e ritornano tenacemente pur avendo rivestito ruoli dirigenziali per molti decenni del secolo scorso. Dai risultati ottenuti a livello del sistema sanitario sembra non siano approdati in nessun porto sicuro a causa delle conosciute contraddizioni culturali e gestionali attribuibili ad un processo cognitivo novecentesco. Se la parte sanitaria regionale rappresenta il 70-80% del bilancio regionale sono facilmente intuibili le possibili ripercussioni prodotte dal governare un fiume di denaro pubblico e del potere che questo comporta nelle varie articolazioni regionali-locali.

È di tutta evidenza che non si possano “ignorare gli errori fatti in passato sulla sanità” così come non si può dimenticare il notevole contributo alternativo prodotto in questi anni con articoli, conferenze, analisi, colte pubblicazioni e offerto ai cultori delle questioni sanitarie dal Prof. Ivan Cavicchi.

È quindi pleonastico richiamare temi e tesi di riforma radicale già avanzate più volte, esaustivamente. Chi ha subito le conseguenze della modifica del titolo V, della regionalizzazione del SSN (percepite come già molto differenziata) considera non sia più possibile peggiorare oltre. (Lettera aperta alla sanità; Autonomia differenziata).

La stagione delle Case della Salute potrebbe addirittura e paradossalmente apparire come un momento generatore di differenziazioni (alcuni colleghi le definiscono discriminazioni) assistenziali e professionali. Cosa potrebbe capitare con le Case di Comunità o quelle strutture intermedie definite Ospedali di Comunità o con l’ipotizzata centralità dispositiva distrettuale?

Cos’è una comunità, come si crea e come si mantiene viva? Alcuni, pur addetti ai lavori, sostengono ed argomentano che le Case della Comunità siano cosa diversa dalle Case della Salute. Forse sarebbe utile leggere la delibera sulle Case della Salute della Regione Emilia Romagna (GPG/2010/228). Una Casa della Salute “grande” potrebbe apparire, almeno dal testo della delibera, molto più attrezzata per una assistenza territoriale integrata di quanto descritto dai vari documenti sulle Case della Comunità. Non solo per la cronicità e per la medicina di iniziativa ma anche per quella di attesa e per alcune tipologie di acuzie (bisogni non differibili). Pare ci sia molta confusione sotto il cielo ma la situazione non è eccellente perché se coloro che sono esperti e che vorrebbero dedicarsi alla formazione degli operatori sono così disorientati c’è da immaginare cosa possa capitare.

L’alternativa, se possibile, non può che passare dal concetto dell’impareggiabilità dei professionisti autori capaci di generare il processo decisionale nella sua completezza e di essere punti di riferimento per le proprie comunità. Da una guida nazionale del Ssn. Da territori contenuti dal punto di vista geografico e di popolazione, concetto assistenziale che si contrappone alle varie tendenze di ingegnerizzazione sanitaria orientate alle fusioni aziendali o alle mega aziende. Da un welfare che sia effettivamente di comunità (non un welfare aziendale per altro pubblicizzato anche dalle aziende sanitarie… sic!).

Sarebbe ora di lasciare lavorare gli operatori senza complicare la loro attività con regolamentazioni amministrative incomprensibili per i cittadini e inaccettabili per i professionisti.

Per le aziende e gli assessorati l’alternativa potrebbe diventare un nuovo ruolo elevato di garanzia inerente i valori fondamentali di universalità, equità e accessibilità e con una riduzione significativa di implicazioni gestionali-amministrative.
Di fatto la situazione richiede la consapevolezza della profonda trasformazione sociale in atto. Se gli operatori non saranno liberi di rimanere autonomamente al passo con le rivoluzioni culturali rischiano seriamente una regressione professionale.

Tralasciando tesi già trattati da provetti commentatori, è possibile solo accennare (parziale elenco) ad alcuni temi che in qualche modo potrebbero rientrare in una riflessione generale in senso “alternativo” per le cure primarie.

  • Purtroppo sembra che secondo il comunicato della commissione di garanzia per l’attuazione della legge sullo sciopero nei servizi pubblici essenziali (GU n. 187 del 10 agosto 2002) sia praticamente impossibile poter indire uno sciopero a livello territoriale (Mmg) come strumento per fare pressioni innovative sui decisori. Nello stesso tempo l’esperienza insegna come i documenti emanati unilateralmente dalle istituzioni (es.: atto di indirizzo della Conferenza Stato-Regioni) non possano poi essere sostanzialmente modificati dai tavoli di confronto indetti ex post.
  • Nelle cure primarie (in particolare nella Medicina Generale detta di base) si assiste ad un parziale ma netto rivolgimento della tradizione in quanto la maggior parte dei professionisti che entrano in attività in questi anni sono donne: questione completamente dimenticata dalla documentazione istituzionale e che potrebbe preconizzare la necessità di una profonda rilettura di bisogni ed esigenze organizzative.
  • Le associazioni di ammalati o dei loro parenti, uniti insieme da una patologia, a volte hanno dimostrato di riuscire a modificare situazioni specifiche, influire sull’organizzazione sanitaria di alcuni reparti ospedalieri e addirittura finanziare ricerche, strumentazioni o immobili. Il coinvolgimento dei cittadini come massa critica in grado agire come stimolo riformatore resta in generale intrepida ma episodica. Ancora più complessa la situazione a livello territoriale dove le associazioni di volontariato o del terzo settore a sostegno e supporto delle cure primarie, come bene comune, sono rare e non ottengono attenzione da parte delle istituzioni.
  • Dopo l’annuncio della Commissione Europea e la definitiva approvazione del PNRR pare siano nate numerose aggregazioni, più o meno spontanee, orientate ad una appropriazione di competenze sul PNRR sanitario e sulle documentazioni istituzionali ed amministrative finalizzate ad ottenere accordi con le aziende sanitare per agire come formatori degli attori che opereranno nelle previste Case della Comunità. Secondo le osservazioni derivate dal principio di indeterminazione potrebbe essere molto utile considerare più punti di vista ed in particolare occorrerebbe prendere atto in modo cogente delle opinioni di chi opera quotidianamente in prima linea.

Bruno Agnetti
CSPS (Centro Studi Programmazione Sanitaria)

09 febbraio 2023
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Medicina Territoriale

Le case della comunità nei quartieri, una scelta in ritardo di anni

22 FEB - Gentile Direttore,

Sul filo di lana del traguardo della consiliatura posso manifestare una malcelata soddisfazione per il fatto che almeno è emersa "ufficialmente" una qualche "sensibilità" su temi direttamente coinvolti all’assistenza sanitaria territoriale avvenuta con la presentazione della delibera della Giunta comunale nella quale si esprime parere favorevole sul sistema strutturale delle così dette Case della Salute (oggi più propriamente definite Case della Comunità) di via XXIV Maggio (quartiere Lubiana) e di via Verona (quartiere San Leonardo).

Null’altro che una "sensibilità" forse nemmeno genuina ma dettata dalla necessità di presentare qualche progetto al fine di racimolare in fretta e furia quel che resterà del Pnrr.

Attualmente le due denominazioni (Case della Salute/Case della Comunità) possono essere considerate concettualmente sovrapponibili come funzioni e obiettivi professionali e assistenziali anche se è probabile che nei prossimi anni possano essere declinate operatività e integrazioni diversificate in relazione agli sviluppi culturali e normativi in atto (Pnrr, contratti nazionali, accordi regionali e locali, approfondimenti e interpretazioni pubblicati da numerosi commentatori nazionali e locali).

Credo a questo punto di poter dare un significato parzialmente positivo al mio mandato amministrativo, considerato che l’obiettivo principale , quello di portare all’interno dell’Amministrazione comunale una attenzione politica alla situazione locale sanitaria periferica, ha causato tuttavia indirettamente una reazione.

Non sono sicuro ma senz’altro la delibera, che arriva con un ritardo di numerosi anni tanto da rendere già obsolete le disposizioni assunte,  sarà scaturita da una approfondita analisi dei bisogni e delle necessità assistenziali e professionali dei quartieri e che saranno stati evasi i necessari confronti e dibattimenti con le comunità e con i professionisti interessati.

Grazie a questi numerosi scambi di vedute saranno stati presi in considerazione gli effettivi bisogni logistico/architettonici, assistenziali e professionali valutando anche quanto elaborato dalla letteratura di settore in questi anni che considera la multifunzionalità e la gradevolezza degli ambienti metafora della guarigione e del benessere.

Come emerge da numerosi resoconti, la vita della singole comunità non richiede la collocazione nei quartieri di poliambulatori ma di strutture in grado di rispondere alle necessità di una società moderna, attiva, con specificità identitarie e la peculiarità diffusa all’incremento delle cronicità ma anche di soggetti appartenenti alla così detta terza e quarta età tuttavia in buona salute, età che non può però essere risolta dal paradigma della città in 15 minuti.

Diversi commentatori hanno evidenziato come siano fondamentali le cooperazioni tra il sociale (inteso come servizi istituzionali ma anche come società civile organizzata) e il sanitario e come l’attività riabilitativa "continuativa" neuro-motorio e cognitivo-psicologico possa essere indispensabile anche per fasce di popolazione più giovane.

A tempo scaduto emerge l’urgente necessità di realizzare gli ospedali di comunità con mansioni anche di hospice (secondo quanto ricordato dal British Medical Journal) che, come dice la parola, per essere tale, cioè per essere Ospedale di Comunità, deve essere inserito proprio nella comunità stessa e nella struttura (Casa della Salute/Casa della Comunità) nella quale si realizza l’integrazione multiprofessionale (medicina generale, 118, continuità assistenziale), multidisciplinare (sanitaria, specialistica, diagnostica), multisettoriale (amministrativo, di volontariato e di terzo settore), relazionale (partecipazione della comunità di riferimento).

Tuttavia la lettura della delibera lascia numerose questioni in sospeso e non affrontate tanto da apparire inadeguata alle finalità che apparentemente sembra indicare.

Già sono passati molti anni dalla formulazione dei propositi contenuti nel testo del provvedimento e forse ne trascorreranno molti altri che potrebbero cambiare visioni, missioni e amministrazioni.

Al momento sembrano affiorare alcune criticità in merito alla condivisione con la popolazione, al confronto con la letteratura di settore, alla realizzazione degli spazi e delle funzioni tra le due Case della Salute/Case della Comunità citate nella delibera.

La mancanza di una visione ambiziosa, contestuale e allacciata alla realtà attuale continua la tradizione dell’opinione tendente al massimo ribasso (conto capitale e organizzazione corrente) inversamente a quello che dovrebbe essere il massimo rialzo (della qualità professionale e assistenziale).

Il concetto di visione ambiziosa (se non ora quando?) viene assimilata da alcuni come un pensiero puerile indegno di essere preso in considerazione e per questo manipolato in senso denigratorio. Manca la cultura del bene comune.

Tutto ciò non ha permesso un cambio di passo e trascina con sé le note criticità sanitarie (l’Ausl è commissariata da quasi due anni senza che nessun dirigente sanitario o responsabile amministrativo comunale abbia spiegato alla popolazione il perché) che continuano a condizionare questa città dando origine a quartieri e cittadini di serie A e serie B così come vi sono professionisti sanitari di serie A e B (manca una programmazione sanitaria territoriale locale efficace per le giovani generazioni di professionisti) e così tra gli stessi dirigenti sembrano esserci quelli di serie A e quelli di serie B.

Sembra proprio che Parma debba giocare "così così" sempre in serie B. Infatti, quale beneficio è arrivato in città grazie al commissariamento misterioso dell’azienda sanitaria locale?

Oggi le malattie improvvise incidono di meno sul complesso assistenziale e professionale delle patologie di lunga durata, quelle che rientrano nel termine cronicità.

Già è stato detto che molte persone della terza e quarta sono senili ma fondamentalmente sane. Quelli che si ammalano spesso non guariscono, si cronicizzano e quindi è assolutamente necessario pianificare con abilità e intelligenza una innovazione del territorio affinché riesca ad affrontare la presa in carico della fragilità (termine generale che contiene numerose forme di malattie o disagi) nella piena consapevolezza che affrontare le problematiche non significa trovare risposte universali.

Occorre ripensare e abolire gli ambiti territoriale e permettere ai giovani medici del territorio di formare gruppi omogenei, affiatati, numerosi e con uno specifico progetto assistenziale autogenerato che siano in grado di assumersi in carico un territorio di riferimento.

Una medicina basata solo sulle evidenze scientifiche non è in grado di affrontare la complessità sociale e sanitaria che non è mai lineare, protocollare, algoritmica, normativa, economicistica.

Occorre innovare e costruire un nuovo sapere fondato sui valori, sulla cultura, sull’esperienza, sull’etica, sul bello e sull’arte. Questo sapere deve essere autonomo, solido, costruito dalla comunità e realmente trasmissibile alle nuove generazioni di professionisti. Per molto tempo abbiamo pensato che la scienza potesse dare risposte appaganti ma ora comprendiamo che occorre tornare all’umanesimo. Covid docet.

Le comunità, insieme ai loro professionisti di riferimento, possono modificare il rapporto con la cura, la salute e il benessere. L’emergenza, lo scientismo, il vitalismo hanno rischiato di trasformare la cura il un oggetto di mercato.

Nella realtà il prendersi cura è un processo, un susseguirsi di momenti che si seguono nel tempo l’uno dopo l’altro e che si fondano non sulla guarigione (cosa significa guarire?) ma sulla relazione tra professionisti e persone che chiedono l’aiuto, familiari, colleghi, comunità…questi interessi uniti e basati sull’umanesimo possono, forse, incidere sull’attuale cultura regressiva delle istituzioni sanitarie e delle amministrazioni politiche.

Bruno Agnetti

Centro Studi Programmazione Sanitaria (CSPS) di Comunità Solidale Parma ODV

22 febbraio 2022
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