Articolo a cura di Bruno Agnetti

Pubblicato su Quotidiano Sanità il 20 maggio 2019

welfare di comunità

20 MAGGentile Direttore,
il dibattito sulle modifiche dei  paradigmi storici della professione coinvolge fatalmente anche i colleghi che   si   interessano    di  ri-organizzazione della medicina generale territoriale. Negli anni sono   state  pubblicate  numerose    ipotesi/proposte  di  “riordino”  dell’attività medica  di  base  anche “pronto uso”  finalizzate  soprattutto   a  ricomporre il distacco  esistente   tra   le richieste di benessere  delle persone e il sistema  sanitario di offerta quanto mai  superato. Il tempo, che pare essere galantuomo,  ha   dimostrato (Balduzzi 2012; Patto della Salute 2014) che fino ad ora non è emerso nessun ragno dal buco dei ragionamenti  della retorica ufficiale (la struttura dell’ACN è ancora quella del 2005 !). 
 
Questo è comunque il campo  dove ci si trova a zappare: continuiamo  quindi  con ostinazione a perfezionare  di volta in volta  il “nostro” progetto  di  innovazione  assistenziale  territoriale  pur visionario.

E’ stato  ampiamente argomentato su come la medicina nel suo complesso sia una disciplina composita in continua evoluzioni.  
Secondo il paradigma bio-psico-sociale la qualità della vita insieme alla personalizzazione delle cure (gestione della complessità)   sono  diventati i parametri più importanti  per determinare una validità  assistenziale e la medicina generale, ancora oggi,  svolge, pur a fatica, un ruolo  fondamentale   nel gestire questi criteri  nell’ambito  della  domanda di salute   e dell’offerta di sanità. 

Per permettere al  mmg  di  ritornare  ad essere il principale attore della salute pubblica territoriale  occorre ri-ordinare l’assistenza primaria con una riforma strutturale e una completa revisione dell’ ACN, secondo i dettami dei principi Wonca e del paradigma del Welfare di Comunità .

Il  “welfare di impresa”  consente ai lavoratori di una  azienda  di beneficiare di  una assistenza sanitaria (parziale e a volte contraddittoria)  e sociale  che non ha il carattere  dell’universalità ma è limitata ai dipendenti  di quel brand con conseguenti vantaggi nella crescita, nell’efficienza e nella produttività per l’azienda. 

Il “welfare state”, termine ancora valido teoricamente, aveva inizialmente la caratteristica dell’universalità e assicurava gratuitamente a tutti i  suoi cittadini  cure mediche, scuola e assistenza sociale ma, alla fine, ha mostrato il suo limite causato dalla dipendenza finanziaria. Il welfare state pur essendo un sistema creato per garantire  una equità sociale in fede di una crescita di capitali  considerati in espansione continua  è  diventato invece  inesorabilmente sempre più povero a causa di una crisi della crescita monetaria  associata ad un incremento “esponenziale”  delle spese sociali e sanitarie e ad un aumento solo  “proporzionale” della ricchezza finanziaria (attualmente stagnante e recessiva).  

Questo divario influisce direttamente sul “valore” dell’equità sociale e può causare conflitti  ed insicurezza diffusa. Un sistema ideato per i poveri non riesce più a rispondere ai poveri.  

Il “welfare di comunità”  può arginare gli squilibri del welfare state e quelli del welfare aziendale.  Il paradigma  del welfare di comunità si basa  soprattutto sull’economia reale ed è in grado di assicurare pace sociale  e aumento  del   senso di sicurezza.   Prevede un coinvolgimento dei vari stakeholder  (portatori di interesse) di una comunità che cooperano ed intervengono direttamente e responsabilmente nel “processo decisionale”  per la progettazione di servizi  in favore di quella comunità.     

La cooperazione o “sussidiarietà” caratteristica dell’operatività del welfare di comunità  è di tipo “circolare”  ed è   finalizzata a migliorare la qualità della vita ( bene comune) dei cittadini di un determinato territorio.  Le istituzione pubbliche   non intervengono  direttamente nel sistema e nel processo  decisionale  ma   operano  affinché  i vari portatori di interesse di un territorio  possano organizzarsi e caratterizzarsi per l’appartenenza. Nel welfare di comunità il ruolo delle  istituzioni diventa esclusivamente di garanzia, tutela e  vigilanza sui valori messi in campo  e sulle finalità dichiarate. 

In una raffigurazione   che comprenda un ipotetico triangolo toccato ai suoi vertici da un cerchio  che possa rappresentare la sussidiarietà circolare dovremmo immaginare  un vertice  occupato dalle istituzioni, un vertice  rappresentato dalla società civile e l’ultimo  vertice  presidiato dalle imprese generative in grado di procurare i finanziamenti necessari ma anche concretezza.  In questo disegno organizzativo le cure primarie  occupano  il ruolo  di leadership  dell’intero sistema in grado di  gestire completamente, a livello territoriale,   il “governo clinico”.

Secondo alcuni autori  riuscire oggi a  progettare una innovazione organizzativa  dell’assistenza  primaria territoriale efficace potrebbe avere   la stessa importanza dell’invenzione di un farmaco  che sia in grado di curare l’epatite o il cancro oppure potrebbe essere un evento paragonabile allo sbarco sulla luna.

Tutta la convenzione per la medicina generale  va ripensata  come “patto per un welfare di comunità” uscendo  dall’ambiguità rappresentata  dall’organizzazione in  distretti  che continuano a proporre   di fatto una logica ospedaliera   applicata  al territorio e alla medicina generale quando bisogni  espressi e non espressi sono fondamentalmente diversi.   

Sono necessari anche luoghi  dove medici e operatori possano  ritrovare,  grazie al nuovo paradigma/modello,  le  radici del  loro mestiere  (etica, cultura, formazione, deontologia, integrazione ecc.)  e  dove gli assistiti  possano diventare protagonisti con i professionisti dei percorsi    preventivi, di educazione sanitaria, di cura  e riabilitazione. In queste strutture la tecnologia e l’antropologia possono marciare di pari passo per ritrovare il vero   senso  della clinica e dell’assistenza.

Il senso dei percorsi assistenziali  è dato soprattutto dai “valori”. Oggi gli aspetti etici e deontologici,  professionali e sociali   non  sono più barattabili  con  ambigui progetti economicistici  che, come insegna quel galantuomo del tempo, non hanno  poi negli anni  risolto un granché. Se si opera per produrre valore  si potrà pensare anche  ad una crescita professionale, sociale ed economica in caso contrario si affonda o meglio  affondano coloro  che non hanno  risorse economiche proprie  ma questo irrimediabilmente innesca insicurezza e  conflitto sociale.

Occorre  però  che tutti gli attori salgano  convintamente  sulla  barca  sicura  dei “valori”così da trasformare un mare periglioso (globalizzazione incontrollata)  in opportunità, sicurezza, convivenza civile e pace sociale (valorizzazione della democrazia?).

Bruno Agnetti
CSPS (Centro Studi Programmazione Sanitaria)
FISMU (Federazione Italiana Sindacale dei Medici Uniti )
Regione Emilia-Romagna

20 maggio 2019
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